in questo periodo, sto pensando molto al cinema: ho letto che l’Italia sta cercando di fare il possibile per aumentare il numero di coproduzioni cinematografiche che avrà con la Cina -una notizia riportata in particolar modo dai media cinesi- e guardo con una certa tristezza questo ennesimo gettarsi fra le braccia delle autorità cinesi. Perché per quanto il cinema cinese recente abbia prodotto alcuni capolavori che sono arrivati anche sui nostri schermi, la costante che facciamo finta di non conoscere è quella della censura. Consideriamo che in Cina viene censurato un vasto arco di temi cinematografici: non sono ammessi i viaggi nel tempo o tutto quello che può essere definito come "superstizione”; non è possibile fare un film in cui un poliziotto corrotto o un criminale la facciano franca; non sono gradite le storie d’amore fra coppie dello stesso sesso, e naturalmente ogni tematica politica che metta in cattiva luce il Partito comunista non è nemmeno da prendere in considerazione. L’esempio di Hong Kong in questo campo è forse unico: negli anni d’oro del suo cinema, ovvero nel periodo degli anni Settanta fino a inizio dei Novanta, quando si producevano qui fino a 300 film l’anno, le star del cinema hongkonghesi erano viste in Cina come le maggiori stelle del mondo intero. L’intera diaspora cinese divorava film di Hong Kong, i quali, per stare al passo con la domanda, venivano prodotti a ritmi folli. Senza copione, con attori che giravano contemporaneamente su diversi set e potevano quindi avere solo costumi super semplici perché mancava materialmente il tempo di truccarli e vestirli, ma con teatri sempre talmente affollati di spettatori desiderosi di nuove pellicole che per far stare il massimo numero di show possibili, gli operatori della moviola facevano andare tutti i film leggermente più in fretta del dovuto -contribuendo all’idea che tutti i film locali siano film di azione spericolati. Poi, agli inizi del 2000, ecco che Hong Kong ha cominciato a fare coproduzioni su coproduzioni con la Cina, in un periodo che ha coinciso anche con il calo drammatico di popolarità delle pellicole hongkonghesi. Ne ho parlato con la regista Mabel Cheung, autrice fra l’altro del film "Le Sorelle Song”, sulle tre sorelle nate a cavallo del Diciannovesimo e Ventesimo secolo che si sono trovate a essere fra le principali protagoniste politiche del periodo intorno alla guerra civile cinese (sposate, tutte e tre, a personaggi chiave: una a Chiang Kai-shek, il leader del partito nazionalista, l’altra a Sun Yat-sen, il primo presidente repubblicano cinese, e la terza a H. H. Kung, l’uomo più ricco della Cina di inizio secolo scorso, che divenne Ministro delle Finanze). Cheung ha sempre lavorato in Cina e sa che cosa significa la censura: "Non ho mai riavuto i 18 minuti che componevano il finale del mio film. Era il ’95, e per i censori, indipendentemente da quello che ci racconta la storia, non potevo rappresentare l’amore fra le tre sorelle, dato che una di loro era sposata al leader nazionalista. Così, visto che se un film viene girato in Cina, allora come oggi, i censori hanno l’ultima parola, il mio finale l’hanno tolto. All’epoca si usavano ancora le pellicole, per cui non me l’hanno mai ridato. Ho dovuto ricomporre un finale con altre scene che non avevo utilizzato, e rendermi insopportabile passando un mese intero seduta all’ufficio della censura, finché non si sono stufati di me. Oggi, però, anche se è tutto digitale, per cui non sei costretto a dare ai censori l’unica copia esistente, se vuoi che il tuo film sia distribuito in Cina deve essere approvato. E ora che la Cina è potente, non accettano più che un film abbia scene diverse per la distribuzione cinese e quella estera. Se vuoi girare e distribuire in Cina, il film deve essere come vogliono loro. Altrimenti niente”. Di recente, però, Hong Kong ha cominciato a ribellarsi, con film a piccolo budget che di nuovo attraggono l’attenzione del pubblico locale -e in alcuni casi, anche di quello internazionale. Come il film Dieci Anni, la visione distopica di Hong Kong fra dieci anni, sempre più schiacciata dal controllo cinese. Parlavo con Javons Au, uno dei registi del film, che mi diceva: "Certo, non si tratta di diventare miliardari. Il nostro film è costato 60.000 euro e ha fatto al botteghino più di dieci volte tanto: ma ha reso me e tutti quelli che hanno lavorato a Dieci Anni persone non grate in Cina. Fa lo stesso: fare film per il pubbli ...[continua]
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