Tra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta, fra poemetti civili (Le ceneri di Gramsci), narrativa sottoproletaria (Ragazzi di vita, Una vita violenta), attività critica (Passione e ideologia) e cinema (Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo), Pasolini ha già raggiunto i livelli più alti della sua notorietà e (benché controversa) autorità culturale. Al polo opposto di Calvino (anche editorialmente attivo in Einaudi prima con Pavese e poi con Vittorini), Pasolini è allora lo scrittore di punta della nuova generazione. Ma nel 1963, a quarant’anni, si avvertono i segni del suo declino, da lui stesso dichiarato, drammatizzato, elaborato come tema centrale della sua opera e presenza pubblica. È l’anno del Gruppo 63 e della neoavanguardia, che ha scelto come bersaglio proprio il suo "sperimentalismo realistico” e il suo oscillare fra "passione e ideologia”. E sono gli anni in cui, sempre di più, il suo interlocutore-antagonista Franco Fortini si avvicina attivamente, come ispiratore e suggeritore, a una nuova e diversa sinistra che scopre la classe operaia del neocapitalismo e rilegge Marx, denunciando letteratura e politica precedenti. Nel giro di due o tre anni, Pasolini diventa oggetto di critiche sia letterarie che ideologiche non solo severe, ma spesso liquidatorie (come quella di Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo). Nelle culture di un’Italia modernizzata che discute di rapporti fra industria e letteratura, di rivoluzioni tecnico-artistiche e politiche, di formazione di nuovi gruppi intellettuali anticapitalistici, per Pasolini sembra che non ci sia più posto: e uno scrittore come lui, la cui produttività e passione poetica è alimentata da idee e ideologia, si sente improvvisamente respinto nel passato. Il tempo della sua ascesa si è dunque concluso presto. Dal 1965 al 1975, anno della sua morte, Pasolini è uno scrittore e un intellettuale in crisi perpetua e non parla quasi d’altro.
Nel saggio di Fortini Le poesie italiane di questi anni, uscito nel 1959 sul n. 2 della rivista "Il Menabò” di Vittorini e Calvino, si legge uno dei ritratti critici più acuminati e tempestivi dell’autore delle Ceneri di Gramsci. Dopo aver segnalato la distanza che separa la cultura letteraria di Pasolini da quella "postmontaliana” di Mario Luzi e Vittorio Sereni, da Fortini viene indicata nella contraddizione e nell’antitesi la caratteristica centrale di questo nuovo tipo di poesia:
"Il pluralismo linguistico e la contaminazione stilistica sono gli strumenti espressivi ‘antiascetici’ di Pasolini (...) Quando si dice di un Pasolini che ‘può far di tutto’ (un dramma in versi, una traduzione dell’Eneide, una collana di sonetti o un romanzo epistolare) intendendo che può far di tutto a un alto o altissimo livello letterario, si vuol dire evidentemente che egli può darci una sola cosa, un solo sentimento fondamentale dell’esistenza, quello dell’ubiquità e della duplicità polare”.
Naturalmente sembra sottinteso che usando una pluralità di forme e di generi letterari si potrebbe fare anche il contrario: adoperarli per uscire da un solo punto di vista e da un solo "sentimento fondamentale dell’esistenza”. Ma Pasolini è incapace di superare l’autobiografismo. Quello di Fortini è cioè un modo per dire indirettamente che il realismo sperimentale di Pasolini è un’apparenza, poiché incapace di percepire l’effettiva, irriducibile, reale varietà del mondo oggettivo. Quella di Fortini è in sostanza una critica morale e politica più che un rilievo psico-stilistico: "La miscela detonante di Pasolini consiste nell’aver scelto -soprattutto nelle Ceneri- le apparenze della ‘comunicazione’, proprie del poemetto raziocinante, didascalico, filosofico ed esortativo di tradizione ottocentesca (da Wordsworth a Hugo, da Vigny a Pascoli), per esprimervi tutt’altra verità stilistica e sentimentale; e nell’aver impiegate tutte le risorse espressive della poesia moderna su contenuti ideologici ormai acquisiti della nuova borghesia italiana. Di qui la ‘democraticità’ apparente di quella poesia e la sua apparente carica ‘rivoluzionaria’”.
Ma se Pasolini è riuscito a realizzare questa apparenza è perché non riusciva ad ammettere che in poesia non si potesse toccare, coinvolgere un più ampio pubblico di lettori e su una più ampia, tendenzialmente illimitata, gamma tematica. Parlare di tutto in versi era il suo istinto. Era però anche la sua scorciatoia. Il genere poesia permette infatti una sinteticità, una velocità di accostamenti ...[continua]

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