Quando l’eurodeputata Rebecca Harms mi aveva chiesto la disponibilità a partecipare alla missione di osservazione delle elezioni presidenziali in Ucraina avevo tergiversato. La prospettiva di tornare un’altra volta a Kiev non mi entusiasmava anche se l’appuntamento, dal punto di vista politico, era ghiotto visto che in base ai sondaggi si prospettava l’affermazione di un outsider potenzialmente destinato a scuotere l’establishment dell’ex repubblica sovietica. Però ero incerto. Cercavo una buona ragione per rifiutare l’offerta e allo stesso tempo una migliore per accettarla. Così rovistando nel cassetto dei miei desideri mi sono imbattuto in un vecchio pallino. Perché non approfittare dell’occasione e chiedere di essere destinato a Odessa? Anche se nelle missioni di osservazione il tempo libero è pressoché nullo, la cornice che accompagna i frenetici spostamenti durante le operazioni di voto gioca un ruolo importante almeno per quanto riguarda l’umore. Un conto è muoversi al freddo sotto la pioggia o la neve, persi in periferie anonime dimenticate da Dio e dallo stato, un altro è se ci si sposta fra luoghi accoglienti con un clima che ti permette di guardarti intorno e apprezzare le immagini che riesci a rubare con sguardi furtivi.
Odessa e la Crimea erano le più famose e frequentate località di villeggiatura marina dell’Ucraina. Dal marzo 2014 è rimasta solo la prima. La penisola di Crimea, infatti, da allora è stata inglobata dalla Federazione Russa attraverso un’occupazione strisciante gestita in un primo momento da uomini in divisa dalle insegne sconosciute che hanno fatto da battistrada all’arrivo dei soldati di Mosca fino al referendum-farsa (che ha sancito l’annessione definitiva) non riconosciuto da Kiev e tanto meno dalla comunità internazionale. Da allora le relazioni fra Unione europea e Russia sono, di fatto, congelate, condizionate da pesanti sanzioni economico-commerciali che ostruiscono le comunicazioni fra Bruxelles e Mosca.
Da allora fra Ucraina e Crimea il confine è sigillato. Agli ucraini che vogliono andare al mare non resta che Odessa, città rinomata per storia e tradizione, che occupa anche una posizione cruciale nella strategia avvolgente portata avanti dal Cremlino nei confronti di Kiev. Non ero mai stato a Odessa, quindi parola d’ordine "Odessa” e Odessa sia. Non resta che accodarmi a Rebecca Harms che, nel frattempo, ha chiesto e ottenuto di guidare la squadra di osservazione destinata alle sponde del Mar Nero. 
Da Kiev, comunque, bisogna passare. Nella capitale, infatti, è prevista la riunione di tutti gli osservatori internazionali che partecipano alla missione. Sono giornate intense nel corso delle quali gli esperti di lungo termine dell’Ufficio per la democrazia e i diritti umani dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) spiegano ai partecipanti come sono state preparate le elezioni dal punto di vista tecnico, i vizi e i difetti della campagna elettorale, il sistema di voto e le eventuali situazioni critiche che si dovranno affrontare. Kiev, peraltro, rimane un punto di osservazione privilegiato: si ha la possibilità di toccare con mano e mettere a fuoco le ultime ore di propaganda dei candidati alla presidenza. Tutti i protagonisti passano da qui e c’è anche chi conclude la campagna proprio davanti all’hotel dove alloggio. È il caso, per esempio, di Julia Tymoshenko. Dalle prime ore del venerdì pomeriggio i suoi sostenitori sono indaffarati a preparare il grande palco del comizio finale nella piazza antistante il monastero di San Michele, sede della chiesa ortodossa del patriarcato di Kiev, ricostruito negli anni Novanta con l’indipendenza dell’Ucraina dopo le devastazioni dell’epoca staliniana.  Gli stendardi blu e gialli, i colori della bandiera ucraina, tingono lo spazio e non può che essere così visto che il partito della Tymoshenko si chiama "Madre Patria”.  Julia ha quasi sessant’anni ma sui manifesti sparsi un po’ ovunque sembra averne una quarantina. La scelta della sua agenzia di marketing elettorale lascia più di un dubbio. Non basta camuffare l’età per rompere con il passato. L’opinione pubblica vuole il cambiamento, ma la risposta a questa domanda non può limitarsi ad un’operazione di cosmesi che passa da uno strato di fondotinta azzeccato. Julia Tymoshenko galleggia oramai da parecchi anni sulle acque agitate della politica ucraina. Non ha più l’appeal di un tempo. I manifestanti che affollavano piazza Majdan nel 2013 chiedevano a gran voce la sua liberazione, così come faceva il Parlamento europeo che la considerava una prigioniera politica del regime di Yanukovich. Dopo la rivoluzione della dignità ha perso lo smalto, travolta dal clima di sfiducia e delusione nei confronti della classe politica che pervade tutta la società ucraina. Una volta l’ex primo ministro muoveva le masse. La gente si mobilitava ovunque per andarla ad ascoltare. Oggi i suoi attivisti, per evitare brutte figure, sono costretti ad organizzare autobus dalla provincia offrendosi di trasportare pensionati in gita nella capitale per riempire la piazza. Le cupole dorate della chiesa di San Michele fanno da cornice ad un rito fiacco e bolso che si consuma in poco più di due ore. Sembra quasi che la Tymoshenko voglia marcare il territorio a dimostrazione che lei c’è ancora e non ha alcuna intenzione di abbandonare la scena della politica. Poca curiosità e altrettanto poco entusiasmo al termine del comizio fra i banchetti dove gli attivisti distribuiscono il materiale elettorale. Nessuno crede veramente che le previsioni possano essere ribaltate nelle ultime ore. 
"Non passa giorno senza che i candidati si accusino reciprocamente di abusi e irregolarità”, nota Hugues Mingarelli, l’ambasciatore dell’Unione europea a Kiev a proposito della campagna elettorale in corso. "C’è un candidato chiaramente in testa secondo i sondaggi, Volodymyr Zelenskyi, ma è ancora molto incerto chi sarà il suo sfidante al ballottaggio”, osserva sotto­linean­do come la lotta per il secondo posto fra il presidente uscente Petro Poroshenko e Julia Tymoshenko sia molto serrata. Il campo dei partecipanti alla contesa elettorale per la carica di presidente è estremamente composito e competitivo. Sono ben 39 i nomi che i cittadini ucraini troveranno sulla scheda di voto. La maggior parte di questi sono sconosciuti in cerca di un momento di notorietà. Altri, pur non avendo alcuna possibilità di successo, sono alla ricerca di un gruzzolo di voti da poter mettere sul piatto della bilancia per negoziare il proprio futuro politico con chi andrà al secondo turno. "Il tempo gioca a favore di Mosca”, rimarca l’ambasciatore di uno dei paesi membri presenti al tradizionale incontro di benvenuto con la delegazione dell’europarlamento, "più passano i mesi e più diventa difficile reintegrare nello stato ucraino le province orientali del Donbass”. "Zelenskyi, che è russofono, è molto popolare sia all’est che al sud del paese dove il russo è la lingua prevalente”, continua, "forse lui è l’unico in grado di parlare e farsi ascoltare da tutta la popolazione”.
L’Ucraina è un paese vasto e complesso. Fra la città di Lviv, al confine con la Polonia e Lugansk, a ridosso della Federazione Russa, ci sono circa 1400 chilometri. A ovest si parla quasi solo ucraino, a est quasi esclusivamente russo. In mezzo, fra i due poli, la popolazione si divide fra chi anela a un futuro europeo e chi rimpiange i tempi dell’Unione Sovietica. Più prosaicamente, però, forse alla gente interessa solo trovare i mezzi per sbarcare il lunario nella vita di ogni giorno. Gli oligarchi che continuano a dominare la scena economica del paese sono sempre più invisi all’uomo della strada. "L’influenza degli affari e degli interessi economici in politica non è un fenomeno che riguarda solo l’Ucraina”, sostiene un altro ambasciatore ricordando come tutta l’area post-sovietica sia affetta dal problema, "quello che manca è la trasparenza”, evidenzia. E se per Mingarelli le riforme economiche promosse dall’Unione europea sono fondamentali per ridurre il potere degli oligarchi riconciliando la classe politica con la società civile, per Rebecca Harms è altrettanto importante combattere la corruzione dilagante smascherando i guadagni illeciti che spesso finiscono sui conti correnti delle banche dei paesi dell’Unione. "L’Ucraina è il paese dove si registra il tasso più basso di fiducia nei confronti dei politici”, afferma il diplomatico che mi siede accanto trascurando il fatto che anche in Europa i governi in carica, in genere, non sembrano godere di buona salute. "A Putin non interessa la vittoria di un candidato in particolare”, rilancia un commensale a proposito dell’atteggiamento della Russia, "quello che conta per Mosca è delegittimare il processo elettorale mantenendo l’Ucraina in una situazione di instabilità cronica”. L’ombra della Russia, comunque vadano le cose, aleggia e si proietta su tutto il disastrato panorama politico dell’Ucraina.
Sono circa mille, io fra questi, gli osservatori internazionali arrivati nell’ex repubblica sovietica per controllare e certificare la regolarità del voto. L’apparente alto numero non deve trarre in inganno: dovranno distribuirsi su un territorio grande quanto Germania e Polonia messe insieme. Il presidente uscente Poroshenko non ha lesinato risorse investendo milioni di euro per risollevare un’immagine offuscata da sospetti, accuse e scandali in un clima di litigiosità permanente. Molte e importanti sono state le riforme decollate sotto la sua guida concertate con l’Ue, a detta degli analisti, ma non sufficienti da invertire il processo di crescente distacco del cittadino medio dall’establishment politico. Alla fine Poroshenko, durante la sua campagna, ha ripiegato su temi tradizionali e di presa immediata, come la patria, la religione e la difesa della lingua. Tuttavia non è riuscito a ridisegnare il suo profilo agli occhi di una opinione pubblica sempre più stanca e disillusa.
C’è voglia di cambiamento e chi se non un personaggio popolare, che non ha nulla da spartire con il teatrino della politica che ha accompagnato l’Ucraina dopo la rivoluzione della dignità, può rappresentare meglio questa esigenza?
Volodymyr Zelenskyi è un attore comico. Dal 2015 va in onda su una delle reti televisive più importanti (canale 1+1) una serie di successo intitolata "Servitore del popolo” in cui lui veste i panni del pro­tagonista: un insegnante che a sorpresa diventa presidente dell’Ucraina. In alcune scene compaiono anche le caricature di quelli che oggi sono i suoi rivali nella competizione presidenziale. Di Zelenskyi si è detto e scritto molto, anche se altri attori in altri paesi hanno fatto irruzione in politica prima di lui. Basti pensare a Ronald Reagan o a Arnold Schwarzenegger negli Stati Uniti fino ad arrivare, più recentemente, a Beppe Grillo che, anche se non ha ricoperto alcuna carica, ha fondato un movimento che ha stravolto il panorama politico italiano. Recitare sul palcoscenico di un teatro o sulla scena della politica non sembra essere poi così diverso; la fama acquisita da una parte può essere spesa con profitto dall’altra. Zelenskyi è un volto di grande notorietà e completamente nuovo per la logora politica ucraina. Tutti i riflettori sono puntati su di lui anche se lui si è ben guardato dal condurre una campagna elettorale secondo i canoni tradizionali. Molto presente sui social media, non ha un programma chiaro, si nega ai dibattiti e privilegia le interviste addomesticate con la televisione per la quale ha lavorato. La proprietà della rete 1+1 è controllata da Ihor Kolomoiskyi, un discusso uomo d’affari riparato all’estero dopo la nazionalizzazione della PrivatBank, l’istituto di credito da lui controllato, più importante dell’Ucraina, travolto da uno scandalo finanziario che ha portato alla scoperta di un buco di più di cinque miliardi di dollari. Dietro le quinte, i detrattori di Zelenskyi non mancano di sottolineare i presunti legami fra l’oligarca e il candidato che considerano una sua creatura. Nonostante le accuse i sondaggi rimangono però abbondantemente a favore dell’attore. Fino alla fine del 2018, peraltro, a contendersi la palma di favorito per la carica più alta dello stato c’era un altro uomo di spettacolo, Svyatoslav Vakarchuk, voce solista di Okean Elzy, la più famosa rock band dell’Ucraina. Ricordo di aver assistito più volte alle sue performance sul grande palco al centro di piazza Majdan durante i giorni della rivoluzione. Allora tutta l’intellighenzia, il mondo dell’arte e della cultura passava da quella piazza per sostenere e dare corpo al sogno europeo dell’Ucraina. Fu quella straordinaria mobilitazione di massa che marcò l’inizio del nuovo corso del paese. Le grandi speranze, però, devono trovare il modo di concretizzarsi, altrimenti subentrano il distacco e l’indifferenza. È proprio quello che è successo a Kiev.

Odessa, la perla del Mar Nero, si materializza improvvisamente sotto ai miei occhi quando l’aereo buca le nubi per la manovra di atterraggio. Adagiata sulla costa, con più di un milione di abitanti è la terza città dell’Ucraina. Rispetto alla capitale è un altro mondo. Cambia il clima, l’ambiente, la vegetazione e, di conseguenza, il modo di vivere. Sul lungomare il passeggio è un flusso ininterrotto di gente che si muove lenta fra le aiuole di giardini ben tenuti. Appena esce il sole e cessa il vento si riempiono i tavolini dei caffè all’aperto. Anche in questa stagione non mancano i turisti. D’altronde Odessa è una città di storia, anche se relativamente recente, ricca di arte e di monumenti. Fondata per decreto dell’imperatrice Caterina la Grande alla fine del Settecento, ha anche ascendenze italiane visto che la persona incaricata di eseguire il progetto fu Giuseppe de Ribas, un soldato di ventura nato a Napoli da una famiglia nobile spagnola al servizio dei Borboni. Odessa, grazie al porto e ai suoi collegamenti, vanta una tradizione cosmopolita. Il russo, che già si parlava comunemente nella regione, era diventato la lingua franca anche per i 133 gruppi etnici che, sulla carta, compongono ancora il tessuto sociale della città. In real­tà ben pochi di questi sopravvivono oggi. Della comunità italiana, ad esempio, non c’è più traccia dall’inizio del secolo scorso. Per gli italiani, però, in particolare per la mia generazione, Odessa evoca un ricordo di gioventù che poco o nulla ha a che fare con la storia reale della città. La prima cosa che faccio dopo avere lasciato il bagaglio in hotel, infatti, è recarmi sulla scalinata dove il regista Eisenstein girò una delle scene topiche del suo famoso film "La corrazzata Potemkin”. Per gli amanti e i conoscitori dell’arte cinematografica rimane indiscutibilmente una pietra miliare. Nel nostro paese, però, l’opera è incidentalmente assurta al pubblico ludibrio negli anni settanta con Paolo Villaggio che, nelle vesti dell’indimenticabile ragionier Fantozzi, definisce il capolavoro del regista russo, a cui lui con tutti i dipendenti era stato obbligato ad assistere dal datore di lavoro, "una cagata pazzesca”. Da allora per l’italiano medio il nome Potemkin è associato a quello del comico genovese. La scalinata collega il centro storico della città al porto che dopo l’annessione russa della Crimea rimane lo sbocco principale dell’Ucraina sul Mar Nero.
Da un grande porto di mare passa di tutto. Odessa, peraltro, nell’Ottocento è stata anche porto franco attirando e sviluppando commerci e traffici da ogni dove sia leciti che illeciti. Oggi la città ha la cattiva fama di essere la capitale ucraina del crimine. Sia il governatore della regione che il sindaco sono accusati di corruzione. Quest’ultimo è ancora sotto inchiesta e, per evitare brutti scherzi di potenziali rivali, ha pensato bene di mettere in piedi un corpo di sicurezza privato di duecento uomini che lo protegge giorno e notte. Inutile aggiungere che il crimine gioca un ruolo primario anche in politica, sia a livello nazionale che, a volte, internazionale.
A Tatyana, l’interprete che ci accompagna negli spostamenti, non posso non chiedere di passare dalle parti dell’edificio che ospita la sede delle organizzazioni sindacali. Il 2 maggio del 2014 in quella zona si consumò uno degli avvenimenti più drammatici e vergognosi che segnarono la storia dell’Ucraina dopo la fuga in Russia di Yanukovich. La massiccia mobilitazione che alla fine del 2013 aveva portato all’occupazione permanente del Majdan non si era limitata alla capitale. Un po’ dappertutto nel paese, specialmente nelle grandi città, gruppi spontanei di cittadini erano scesi nelle piazze per sostenere la rivoluzione della dignità. Nei luoghi più sensibili al richiamo di Mosca, però, alle manifestazioni che reclamavano un cambiamento di rotta se ne contrapponevano altre che sostenevano la continuità del regime filo-russo al potere. Spesso fra i cortei scoppiavano scaramucce che, a volte, degeneravano in aggressioni e scontri violenti. A Odessa, dopo mesi di schermaglie fra i due campi, in quel tragico giorno di inizio maggio morirono 48 persone con più di duecento feriti. Quarantadue di quelle vittime trovarono la morte soffocate nell’incendio che divampò nella sede dei sindacati dove una parte dei dimostranti filo-russi era riparata per difendersi dall’avanzata veemente della controparte filo-atlantica. Di quei fatti funesti si discusse molto, ma a tutt’oggi, purtroppo, la giustizia ucraina non è stata in grado, più o meno intenzionalmente, di portare a termine una indagine credibile su quello che realmente successe individuando e condannando i responsabili dell’orrendo crimine. E più passa il tempo più si allontana la possibilità di trovare la verità, rinfocolando le polemiche e la richiesta di giustizia da parte dei famigliari delle vittime. Inutile dire che per Odessa, come sottolinea Tatyana, fu uno shock tremendo che frantumò la consolidata tradizione di città aperta dove da sempre convivevano pacificamente gruppi e persone di lingua, cultura, religione e opinione delle più disparate. Del tutto logico, quindi, che lo sgomento di quei giorni non sia stato ancora metabolizzato, tanto che quando si tocca l’argomento la gente del posto si mostra restia a parlarne.
La domenica mattina a Odessa è come la mattina dei giorni di festa in tutte le città del vecchio continente. Poche persone per le strade nelle prime ore dell’alba a eccezione dei seggi dove le commissioni elettorali (composte in buona parte da donne), sono già all’opera in modo che tutto sia pronto al momento dell’apertura. Registri ed elenchi vengono disposti con cura sui banchi dagli scrutatori. Le schede sono lunghe strisce di carta in verticale che gli elettori sventolano maldestri mentre si recano alle cabine e faticano a piegare prima di infilarle nell’urna. Trentanove candidati equivalgono a ottanta centimetri di democrazia. C’è una affluenza debole e, come sempre, sono quasi esclusivamente anziani e pensionati i primi ad arrivare. Dei giovani non c’è traccia fino a tarda mattinata, una volta smaltite le ore piccole del sabato notte. Compilo meticolosamente i moduli che mi sono stati assegnati con Cristina Castagnoli, la funzionaria del Parlamento europeo che coordina le missioni di osservazione.
In precedenza sono stati intervistati i presidenti di seggio e i rappresentanti di lista per raccogliere dati e impressioni controllando che tutto sia in ordine.
Si temevano incidenti sul Mar Nero ma tutto, per fortuna, fila liscio. Si pensava, in particolare, a qualche azione dimostrativa dei militanti dell’estrema destra in caso di risultato incerto. Sin dalle prime fasi dello spoglio delle schede, però, si intuisce che non potranno esserci contestazioni. Volodymyr Zelenskyi è nettamente davanti a tutti con un ragguardevole 30% dei voti, che supera ogni previsione dei sondaggi. Con lui al ballottaggio c’è il presidente uscente Petro Poroshenko, umiliato e staccato di ben quindici punti. Seguono tutti gli altri trentasette, la maggior parte dei quali destinata a ripiombare nell’anonimato. Zelenskyi si afferma in tutto il paese salvo la regione più occidentale, quella di Lviv. Come nella fiction televisiva, il cittadino qualunque si prende la rivincita sul politico di lungo corso. Speranze e delusioni si accavallano e si intrecciano. La democrazia è viva, viva la democrazia!
"Meglio il voto per Zelenskyi che un nuovo Majdan”, dice Ole Mikhailik, un noto attivista politico locale, paventando il timore che una nuova rivoluzione possa mettere a rischio il corso delle riforme. Lo incontro con Rebecca Harms nella hall dell’hotel dove alloggiamo. Oleh è accompagnato da un agente di polizia seduto al tavolo di fianco. Da quando è stato colpito da un proiettile durante un’aggressione a mano armata nel settembre dello scorso anno si muove con la scorta che le autorità locali gli hanno messo a disposizione.  "La situazione a Odessa è molto pericolosa -enfatizza- negli ultimi mesi ci sono stati altri quattordici casi di violenza armata che non sono stati investigati dalla polizia oltre a vari atti di intimidazione come, ad esempio, auto bruciate”. "Le reti criminali sono infiltrate a tutti i livelli sia nella politica che nella pubblica amministrazione e nel settore giudiziario”, accusa laconico. Anche quello che gli è capitato è da mettere in relazione con il torbido mondo del crimine profondamente radicato in città. "La pallottola che mi ha colpito si è fermata a due centimetri dall’aorta”, racconta. "Nonostante l’ingente perdita di sangue sono riuscito a scappare, ma è solo grazie ai medici tedeschi dell’ospedale di Monaco, dove sono stato trasferito, che mi sono salvato”, nota ancora con ansia mostrando il braccio in riabilitazione. Oleh, in precedenza, si era occupato delle losche operazioni legate al settore edilizio. Per lui buona parte dell’economia della città è sotto il controllo di ambienti criminali. Volevano ammazzarlo per togliere di mezzo un personaggio scomodo che non smette di denunciare il malaffare che alligna nelle istituzioni locali. Si mostra pessimista sia per quanto riguarda la città dove risiede che per quanto riguarda l’Ucraina in generale. "Ci aspettavamo di più dal cambiamento di regime, per quanto alcune delle riforme adottate, come quella della decentralizzazione dei poteri, stiano avendo effetti positivi”. Mikhailik, in particolare, è preoccupato dall’emigrazione. "Troppa gente vuole andarsene -lamenta- soprattutto le persone qualificate di cui il mio paese ha un disperato bisogno”.
Di Novorossiya si è molto parlato quando è scoppiata la crisi del Donbass. Alla Confederazione della Nuova Russia facevano espressamente riferimento i secessionisti che nel maggio del 2014 (con il sostegno russo) avevano dichiarato l’indipendenza degli "oblast” di Donetsk e Lugansk. Si diceva allora che il progetto del Cremlino era di creare uno stato cuscinetto che, dalle province orientali dell’Ucraina, con una striscia di terra a mezza luna a sud di Kiev lungo il Mar Nero, arrivasse fino a Odessa per poi congiungersi con la Transnistria, l’autoproclamata repubblica solo "de iure” in Moldavia ma, di fatto, sotto il controllo di Mosca.
Data per acquisita l’annessione della Crimea, l’obiettivo di Putin era di destabilizzare il vicino per impedirgli di consolidare un modello di democrazia che potesse proporsi come alternativa di successo all’autocrazia russa.
Le terre di nessuno sono luoghi senza legge. Oppure, più spesso, sono territori dove il diritto si piega alla volontà o, meglio, alla prepotenza del più forte. Le terre di nessuno sono luoghi dove politica e crimine si toccano, si sovrappongono e si intrecciano inestricabilmente. Controllare le reti del crimine organizzato vuol dire condizionare la politica determinandone gli obiettivi. Secondo Oleh Mikhailik la tragedia del 2 maggio 2014 va inquadrata in questo contesto. Probabilmente agenti russi infiltrati negli ambienti criminali di Odessa miravano a provocare una sollevazione analoga a quella del Donbass. Fu solo grazie al potere dissuasivo della corruzione se questa non si verificò. Il denaro immesso dagli ucraini nei circuiti del crimine e della politica locali prevalse o neutralizzò quello russo. Rivolta fallita, quindi, a Odessa, e progetto Novorossiya che ritorna nel cassetto del Cremlino in attesa di tempi migliori.

Da Odessa a Chisinau ci sono circa 170 chilometri. Sono più di quattro ore di strada che percorro su una delle tante "marshrukta”, i taxi collettivi che collegano le due città. Per i moldavi anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Odessa rimane la località principale per le vacanze di mare. Attraverso il confine a Palanca, appena sopra la foce del fiume Dniester, e così ho l’opportunità di sperimentare direttamente la gestione delle ispezioni doganali. Grazie ai finanziamenti europei, gli agenti ucraini e moldavi controllano congiuntamente i documenti di chi transita, accelerando i tempi di passaggio. In un’unica sosta ottengo sul passaporto sia il timbro dell’Ucraina che quello della Moldavia. Il taxi si muove lento sulle strade di campagna dove appena dopo il confine la vite e gli alberi da frutto prendono il sopravvento sulla terra incolta. Il tragitto più breve dal punto di vista chilometrico suggeriva l’attraversamento della Transnistria, ma da quelle parti le lunghe procedure di controllo dei passaporti rischiano di dilatare i tempi di percorrenza. Meglio stare alla larga dalle terre di nessuno. A Chisinau la vita scorre lenta, sicura e prevedibile. Tutto sotto controllo. Almeno così sembra.