Dopo che il Circolo del mio paese cambiò nome per chiamarsi Fascio, nel novembre del 1922, le cose restarono tutte come prima, con la sola differenza che il presidente si chiamò segretario e dovette farsi cucire dalla moglie un petto nero da mettere sotto il gilè per le visite alla Federazione di Catania. Inoltre, fra i ritratti a colori del re e della regina fu appesa una fotografia di Mussolini con la rendigote a risvolti di seta e il cappello a cilindro in mano. Per tutto il resto non ci furono cambiamenti. I soci seguitarono a riunirsi sui divani foderati di tela grigia per raccontarsi barzellette e tenersi informati dei prezzi del vino; sul grande tavolo di noce si continuò a trovare accanto al giornale di Catania il "Travaso”, dove si vedeva Mussolini che lanciava fulmini dagli occhi e dietro di lui un leone e un piccolo Padreterno sempre pronti ai suoi ordini.

Solo qualche vecchio seguitò a parlare del barone e dell’avvocato, gli avversari che fino a quel tempo avevano diviso il paese in tutte le elezioni; adesso l’avvocato era rimasto a badare ai suoi aranceti e ai clienti, mentre il barone si era messo dalla parte del Fascio, ma si sapeva che anche lui non contava più come prima né a Roma né a Catania. Di partiti, ormai, restavano solo quello della parrocchia di sopra e l’altro della parrocchia di sotto: l’antica guerra fra i gruppi di famiglie organizzati attorno alle chiese si sfogava nella maldicenza, più astiosa da quando non poteva essere fatta ad alta voce nei giorni delle elezioni. Siccome non c’era mai stato un partito degli antifascisti, non si formò nemmeno il partito dei fascisti.
Ai preti il Fascio non piaceva, e lo chiamavano "fenomeno passeggero” quando andavano a prendere il caffè nelle case dei vecchi capi elettori. A tutti gli altri non piaceva e non dispiaceva: era un’altra specie di governo, ma sempre un governo, e si sa che questo guaio non può mai mancare. Che poi a Roma comandasse qualcuno o qualchedun altro non aveva grande importanza: "Scinni Masi e acchiana Vrasi”, ne scende uno e va su un altro come lui.
Pochi mesi dopo la marcia su Roma, passarono per la strada nazionale tre autoblindate grigie con una striscia tricolore verniciata attorno alla torretta. Al Circolo se ne parlò appena, fra una mano di tressette e l’altra: si sentiva dire che quelle macchine erano state mandate in giro per far calare il bollore ai quattro gatti che a Messina, a Catania e in qualche città si erano messi all’occhiello una moneta da un soldo con la faccia di Vittorio Emanuele III per far sapere che loro restavano attaccati al re e alla vecchia legge. La rivolta del soldino svanì in pochi giorni come una bolla di sapone e nel paese furono fieri che nessuno ci fosse cascato, neanche i capi elettori del barone che alle ultime elezioni stava in un partito chiamato monarchico costituzionale.

Invece furono più d’uno a cascarci prima col marco e poi con l’acido citrico. Qualche biglietto da mille non mancava in quegli anni nelle famiglie dei proprietari, perché il prezzo del vino e delle arance era salito parecchio mentre il salario degli zappatori restava quello di prima, e nessuno si dava allo spreco: al massimo si comprava il pesce da taglio invece delle solite sardelle. Il danaro del racconto veniva conservato in un cassetto del comò fra la biancheria della moglie, perché a mettere i soldi in un libretto di risparmio alla posta era come far sapere alla gente i fatti propri. Comprare marchi tedeschi appariva un affare da guadagnarci molto con poco rischio, perché erano scesi a due soldi: un affare come quelli dei commercianti di Riposto che venivano a comprare il vino nelle annate di grande abbondanza e le arance quando le esportazioni erano chiuse, a prezzi da compensare appena la spesa del raccolto. Invece il marco finì come carta straccia e chi ne aveva comprati ci rimise fino all’ultima lira.
La stessa cosa successe con i buoni dell’acido citrico, acquistati quando le fabbriche di Messina ne avevano i magazzini pieni e cedevano la merce a prezzi da fallimenti; l’acido citrico scese ancora e non tornò più su perché in Inghilterra avevano inventato il modo di fabbricarlo facendo a meno dei limoni. I miei compaesani non se la presero con i tedeschi, che anzi ammirarono per essere stati così furbi da imbrogliare il mondo intero, e nemmeno con gli inglesi; se la presero con se stessi per aver mancato alle antiche regole della prudenza che raccomandano di lasciar perdere le novità ...[continua]

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