Pia Grassivaro è professore associato di antropologia all’Università di Padova. Dal 1988 coordina un gruppo di lavoro sulle mutilazioni genitali femminili delle immigrate africane. Ha pubblicato molti saggi sul tema e in modo specifico sull’esperienza alternativa all’infibulazione di Merka.

Come ha conosciuto Mana Sultan Abdirahmaan?
Nonostante sia stata in Somalia dal 1972 fino al 1984-85, ho conosciuto Mana solo successivamente, in Italia.
All’epoca, con mio marito, eravamo stati mandati a Mogadiscio dal Ministero degli Esteri, per insegnare, come esperti Mae. Mio marito, statistico, era responsabile della facoltà di economia dell’Università nazionale della Somalia. Io ero una biologa, per cui un po’ ho insegnato geografia delle popolazioni africane, dopodiché ho fatto la ricercatrice libera.
Proprio in quel periodo è stato avviato un progetto sulla mutilazione genitale femminile, che pare fosse stato voluto dalla prima moglie di Siad Barre, Kadija, e addirittura grazie all’intervento della moglie di Craxi. C’era qualche precedente locale, in particolare un ostetrico somalo aveva avuto l’autorizzazione di fare una prima indagine sul problema dell’infibulazione. E’ stato così che il preside di medicina mi ha dato l’autorizzazione a seguire tre studentesse somale che facevano la tesi di laurea sull’infibulazione. Tutte e tre erano ovviamente infibulate, per cui partivano dall’esperienza vissuta sulla propria pelle.
Era un’indagine che serviva soprattutto a loro perché non sapevano dove appoggiarsi, c’era solo questo giovane somalo, che però non era in grado di gestire dei dati statistici, era un medico. Con queste tre studentesse ho fatto questa grossa indagine su 2000 donne che in qualche maniera ha richiamato l’attenzione dell’Aidos italiana (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) che ha implementato il progetto, prevedendo anche una parte di aggiornamento di alcune figure somale femminili di varia formazione, pedagogica, educativa, sanitaria, ecc. cercavano insomma di coltivare un gruppo per un domani. Fra queste donne c’era Mana Sultan Abdirahmaan, ma all’epoca, come dicevo, non ci siamo conosciute.
Poi purtroppo è iniziato il periodo nero, con la guerra e tutto il resto, noi eravamo già rientrati e tanti contatti sono andati persi.
Comunque, tornata in Italia, ho presentato i miei dati al congresso nazionale di studi somali a Roma, e ovviamente sono stata contestata. Ricordo che lì io ho detto: “Guardate questi sono i miei dati, tirate fuori i vostri e li confrontiamo”. Ma siccome loro dati non ne avevano, sapevano solo che la loro nonna faceva così, che la loro sorella faceva così, che le madri eccetera, insomma ho presentato la mia indagine, dopodiché ho scritto il primo libro sulla circoncisione femminile in Somalia.
Devo dire che, avendo capito l’importanza di questa tradizione, ho subito pensato che con la guerra, se fosse cominciata un’immigrazione in Italia, le donne somale se la sarebbero portata dietro. E infatti è quello che è successo.
Di lì l’idea di avviare anche qui un gruppo di lavoro dedicato alla evoluzione di questa tradizione, che monitorasse quanto accadeva in Italia.
Quando è avvenuto l’incontro con Mana?
Ho rivisto Mana ad un congresso di intellettuali somali tenutosi a Padova all’inizio degli anni 90, non ricordo con esattezza. C’erano tutti questi intellettuali somali in diaspora, transfughi, e si era cercato con questa iniziativa scientifica di fare corpo comune con loro, di riunirli anche.
Quel giorno ricordo di essermi avvicinata a Mana, chiedendole: “Come va?”. Lei parlava un perfetto italiano perché educata dalle suore dell’orfanotrofio, dalle nostre missionarie a Merka, e siamo subito entrate nel merito. Tant’è che lei ha esordito dicendomi di un’iniziativa che voleva intraprendere sull’infibulazione. Io mi sono subito fatta raccontare tutto.
A convincerla erano stati anche i grossi problemi che aveva avuto durante un’ispezione endoscopica qui in Italia. L’infibulazione era talmente ristretta che all’ospedale di Torino si erano messi le mani nei capelli, non sapevano dove mettere la sonda, mi confidò, e aggiunse: “Sai, ho pensato di proporre un’alternativa all’infibulazione che tolga la parte traumatica e che lasci tutta la parte culturale, perché ad andare a parlare dell’eliminazione dell’infibulazione in mezzo ai nomadi, o anche solo a Merka, ti sparano. E’ al di sopra delle loro possibilità concepire un discorso del genere”.
Aveva ...[continua]

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