L’intervista a Boris Groys, condotta da Frank Berberich, è stata pubblicata nel numero speciale dedicato al ventennale della caduta del Muro di Berlino su Lettre International.
Tu sei nato a Berlino e ci hai lavorato a più riprese, quindi hai un rapporto speciale con questa città.
Sono nato a Berlino da una famiglia russa. Mio padre fu mandato a Berlino nel 1946, dopo la Seconda Guerra mondiale, dal Ministero per l’energia elettrica, e la famiglia vi rimase per un periodo relativamente breve. I miei ricordi sono pochi, ma i miei genitori hanno parlato molto a lungo di quegli anni, quando il muro non c’era ancora, e la divisione non si manifestava in modo così pesante. Nei primi anni c’era ancora una certa libertà di movimento.
La vicinanza biografica a quella "sutura” tra Est e Ovest ti ha portato a vivere esperienze particolari?
Prima della caduta del muro, Berlino era la capitale del mondo, dopo la caduta del muro è diventata la capitale della Germania. Questo ha significato da una parte una certa liberazione, dall’altra una dimissione storica, con conseguenze a lungo termine. Quando tornai in Germania, all’inizio degli anni ’80, il mondo era regolato dalla Guerra Fredda. C’era un punto nevralgico centrale, e questo punto era Berlino. Berlino era il centro della Guerra Fredda, il luogo in cui si misurava la temperatura del mondo. Allora avevo la sensazione che la Germania e Berlino fossero antenne sensibilissime. La Germania nelle sue parti, e soprattutto la Intellighenzia tedesca, erano continuamente elettrizzate, irretite, coi nervi scoperti. Tutti avevano la sensazione di essere i medium della politica mondiale, di vivere in un luogo vincolato non solo esteriormente ma intimamente, col mondo intero. Attraverso il proprio corpo e il sistema nervoso, si muovevano in reti politiche globali, sentivano fisicamente, nel corpo, l’umore del mondo - questo mi piaceva. Ero felice di essere in Germania perché, grazie a queste sensibilità e apertura estreme, anch’io come russo non mi sentivo straniero.
Più tardi, ma prima del 1989, conobbi Heiner Müller, ne diventai amico, conobbi gente della Volksbühne e altri.
Anche nella parte orientale, sensibilità e curiosità davano l’impronta alla città. Forse in ambiti più ristretti, forse con meno continuità, certamente non in tutta la popolazione. Ma a Lipsia, Dresda, Berlino Est, nei luoghi della bohème tedesco-orientale per così dire, questi aspetti erano molto evidenti.
Dopo la caduta del muro, ciò che sorprendeva nella maggioranza degli intellettuali di opposizione dell’Est è che erano fortemente impegnati sulle questioni inter-tedesche, ma mostravano un certo distacco verso l’Europa ed erano pressoché indifferenti ai problemi internazionali globali, a parte Heiner Müller e pochi altri "cittadini del mondo”.
Ciò è legato al fatto che l’ideologia comunista era internazionalista, e questo per la gente era un invito a diventare nazionalisti. Se si voleva assumere una posizione antiautoritaria e indipendente, era facile scivolare in un angolo nazionalista, dal momento che il comunismo, specialmente in Germania Est, poteva essere identificato senz’altro con l’imperialismo sovietico. Questo automatismo spingeva la gente verso la nazione. Persino in Russia era così, in modo meno marcato che nell’Europa orientale, ma nel senso di un nazionalismo russo contrapposto alla ideologia sovietica. Il nazionalismo russo fu anche perseguitato, perfino la parola "Russia” era praticamente vietata.
Il nazionalismo era considerato una forza di opposizione, da qui quelle tendenze nazionaliste nell’Europa Orientale post-comunista.
Nella Germania Est il ricordo e l’interesse per la Prussia erano più pronunciati che all’Ovest, perché ci si trovava nell’antico territorio prussiano, la cui storia era in parte la ...[continua]
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