Lei sostiene che l’Occidente, Stati Uniti ed Europa, ha un’immagine irrealistica del mondo musulmano.
Sì, perché spiegano il mondo musulmano con l’Islam, come se ogni musulmano, quando si alza la mattina, fosse programmato per essere esclusivamente musulmano per tutto il resto della giornata, in tutte le sue attività e in tutti i suoi pensieri. L’Islam sarebbe, cioè, una sorta di costante che spiega tutto quello che succede nelle società musulmane. Così, quando questo elemento sparisce non si capisce più nulla, si rimane disorientati e si va a cercarlo sotto il tappeto o dietro la porta. Questo è culturalismo, ed è una cosa molto vecchia. Il Diciannovesimo secolo è il secolo culturalista per eccellenza. Quello che è interessante è che, dopo Samuel Huntington, il culturalismo ha ritrovato una nuova verginità e si è spostato a sinistra. E questa è, invece, una novità.
Poi ci sono gli avvenimenti che possiamo definire "cristallizzatori”, come la Rivoluzione iraniana e l’11 settembre che hanno, per così dire, "fissato” l’immagine del mondo musulmano.
E poi c’è l’immigrazione: anche se non c’è alcun rapporto storico è successo che la crisi dell’immigrazione sia arrivata con la crescita dell’islamismo in Medio Oriente. Quando parlo di "crisi dell’immigrazione” intendo che questo fenomeno è diventato una questione centrale nel dibattito nazionale nei Paesi europei. In Francia è successo negli anni Ottanta, quando gli immigrati erano lì da almeno vent’anni; in Italia sta succedendo ora; in Germania e in Inghilterra è accaduto negli anni Novanta. Siamo passati, in Europa, dall’idea di immigrato a quella di musulmano.
Come dice Thilo Sarrazin in Germania: "Non abbiamo problemi con gli adolescenti, non abbiamo problemi con i russi... ma abbiamo un problema con i musulmani”. Anche gli svizzeri con il voto sul minareto hanno confermato che l’elemento critico sono i musulmani.
"Fortunatamente” in Italia e in Francia, ci sono anche i Rom, per sviare l’attenzione dai musulmani (è una provocazione ovviamente). In Europa abbiamo costruito l’idea dell’immigrato come di un "altro” sul piano politico, culturale e religioso. Un "altro” inassimilabile quindi. Questo approccio rinforza una visione "essenzialista” del Medio Oriente e una concezione huntingtoniana delle civiltà che, in quanto fondate sulle religioni, sono incompatibili.
Lei ha parlato di una crescente islamizzazione negli ultimi 30 o 40 anni. Contemporaneamente però abbiamo assistito anche a un processo di secolarizzazione.
Sì, è vero. D’altronde quando l’Islam è dappertutto non è da nessun parte. Se anche il fast-food e la moda diventano halal, è legittimo chiedersi dove sia l’Islam. Oramai l’Islam è un problema di marketing. D’altra parte, i giovani musulmani vivono forme di religiosità che sono paragonabili a quelle che vivono i loro omologhi in Europa: si preoccupano della loro realizzazione personale, della felicità in terra insomma. Nella religione, l’aspirazione alla "salvezza” personale è stata affiancata dalla ricerca dei mezzi per essere felici sulla terra.
C’è un’individualizzazione delle fede che è tipica del momento storico e che va di pari passo con la ricerca della libertà. Parlo delle nuove generazioni, nelle vecchie sicuramente porrebbe qualche problema in più. In questo contesto la domanda religiosa non è incompatibile con la domanda democratica, diversamente da quanto avviene, invece, con i fondamentalisti. Basterebbe prendere in considerazione la posizione, tutt’altro che monolitica, dei giovani sul velo: chi vuole portarlo lo porta, chi non vuole non lo fa.
Yusuf Al-Qaradawi, che pure viene dalla vecchia generazione dei Fratelli Musulmani, ha saputo cogliere tempestivamente alcune istanze giovanili. Non a caso, agli occhi dei Wahabiti, è considerato un liberale, mentre in Occidente è percepito come un fondamentalista. Ecco, quando a febbraio è tornato in Egitto, tutti sono rimasti colpiti dal fatto che si sia rivolto ai "musulmani e copti”, anziché, come nella formula canonica della preghiera del venerdì, ai ...[continua]
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