Julio Monteiro Martins, brasiliano, è scrittore, e poeta, nonché docente di scrittura creativa al Goddard College (Vermont), alla Oficina Literariá Afrânio Coutinho (Rio de Janeiro), all’Istituto Camões di Lisbona e alla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro. Attualmente insegna lingua e letteratura portoghese all’Università di Pisa. È uno dei principali rappresentanti in Italia della letteratura della migrazione. Ha pubblicato molti libri in Brasile e Il percorso dell’idea, Racconti italiani, La passione del vuoto, e L’amore scritto, in Italia. Ha fondato la rivista letteraria online "Sagarana” e l’omonimo laboratorio di narrativa. Da vent’anni vive a Lucca.

La tua passione per la lettura e la scrittura è stata molto precoce: a diciotto anni in Brasile con i tuoi primi libri hai avuto grande successo. Com’è cominciato tutto?
Non dico dalla culla ma poco dopo. Mio padre e mia madre non avevano quasi niente in comune, se non il fatto che erano entrambi molto giovani e molti belli. Mia madre era un’intellettuale; mio padre era figlio di un ricco industriale, aveva smesso di studiare ed era un tipico playboy. Mamma rimase incinta, ma non voleva sposarlo perché lui aveva un mucchio di donne, allora gli ha detto: "Ti sposo solo se andiamo a vivere in campagna”, e mio padre ha comprato una bella casa in campagna con un bel giardino. Lei era contenta. Si sono sposati, sono andati in luna di miele e quando sono tornati lui l’ha portata in un appartamento in città. L’altra casa l’aveva già venduta. Mio padre faceva vita da single, quando avevo due o tre anni si fidanzò ufficialmente con un’altra ragazza di una famiglia bene: cena con i futuri suoceri, anello... Era fatto così. Mamma rimaneva a casa, era professoressa di inglese al liceo, poi, quando io avevo cinque o sei anni, insegnava letteratura nordamericana all’università. Doveva studiare, prepararsi per le lezioni e siccome eravamo solo lei e io, leggeva gli autori che stava studiando. La mia prima lingua letteraria è stata l’inglese. Mi leggeva brani di Moby Dick, pièce teatrali di Tennesse Williams, con tutte quelle crisi coniugali tremende, le poesie di Frost, di Whitman, di T.S. Eliot che lei amava molto. Ancora oggi ricordo a memoria poesie intere di Eliot, come "The love song for J. Alfred Prufrock”: …in the room the women come and go talking of Michelangelo… Quando andava a letto la sera, frustrata dall’assenza di mio padre, diceva: "Vado a letto con i miei veri mariti”. Faulkner soprattutto. Un suo libro, che scrisse quando io ero più grande, L’urlo e il furore, è stato adottato dalle università americane. Così io mi sono innamorato di queste cose. Poi, quando già avevo nove anni, è nato mio fratello. Non so se fosse figlio di mio padre, ma lui è stato corretto, abbiamo lo stesso cognome. Quando mio fratello aveva un mese, papà è andato via per sempre. Mia madre non riusciva ad andare avanti da sola con due bambini, così mi mandò in montagna, a Resende, dai nonni. Mio nonno aveva un grande frutteto nelle montagne che si chiamano Aghi Neri, a 3.500 metri, le più alte del Brasile, tra Rio e San Paolo, colonizzate dai finlandesi. Insieme a loro, biondi e alti, si erano mimetizzati anche i nazisti. Avevo dodici anni e ho vissuto lì tre anni. Per me è stata una cosa incredibile. Mio nonno soffriva di nevralgia del trigemino e urlava per il dolore tutta la notte, aveva un’arma, urlava e diceva: "Questa notte mi sparo”. Alle nove e mezza si spegneva la luce a gas, era buio, lui urlava e io non potevo dormire. La nonna dormiva con me: aspettavo che si addormentasse, poi mi mettevo sotto le coperte, accendevo la mia torcia elettrica e leggevo. La mia salvezza sono stati i libri. Ogni mese mia madre mi mandava con il pullman una scatola di libri. Sono stato molto fortunato, in fondo.
Era il ’66, ’67 e in quegli anni una casa editrice di Rio ha ripubblicato tutti i grandi classici in edizione tascabile, tipo Bur. Così ho letto tutte quelle cose che se non leggi in quella fase della vita poi rischi di non leggere mai più: le tragedie greche, Euripide, Eschilo, Sofocle, poi Shakespeare. Divoravo di tutto, tutta la psicanalisi, Freud, Jung, Adler, Reich, fondamentali dopo, perché la narrativa ha tutta un’altra profondità se conosci bene i meccanismi dell’inconscio individuale e collettivo, e poi i filosofi,  Schopenhauer, Kant, che sono cose anche molto noiose, ma nessuno me l’aveva detto e allora mi sembravano interessanti, mi piacevano ...[continua]

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