Potremmo intanto cercare di circoscrivere che cosa intendiamo per depressione, anche a partire dalla tua esperienza clinica?
Depressione, in effetti, è diventato un termine che indica tutto e quindi alla fine rischia di non indicare niente. Quando parlo di depressione, io faccio riferimento a quelle che la clinica psichiatrica definisce "depressioni reattive”, quindi depressioni in soggetti nevrotici, che vanno distinte dagli stati melanconici dove esiste, ugualmente, un problema del tono dell’umore che si abbassa considerevolmente, ma all’interno di una logica completamente diversa. Nelle depressioni di tipo nevrotico, che sono conseguenti a un evento, non sempre cosciente al soggetto, anzi, spesso sconosciuto al soggetto stesso che pure se ne lamenta, c’è questa condizione di abbassamento del tono dell’umore che assume delle caratteristiche specifiche. Uno dei primi tratti tipici che si riscontrano ascoltando le persone è appunto il lamento: "nessuno mi capisce”.
Le persone depresse temono che il loro male venga sottovalutato.
Sì, nelle parole di chi ha questo sintomo c’è spesso la denuncia dell’incomprensione da parte dell’altro, perché in effetti non c’è un qualcosa di preciso che fa male, nemmeno l’interessato sa che cos’è esattamente che fa male. C’è un dolore -Freud lo chiama un dolore psichico- e però questo dolore non è localizzato da nessuna parte. Per dire, l’attacco di panico ha un’espressione corporea, anche l’anoressia ce l’ha; uno stato di angoscia si scarica, dice Freud, lungo le vie del corpo. La depressione invece lascia questo punto interrogativo: il male si sente "dentro”, sì, ma dove?
Il fatto che il dolore non sia localizzato fa sì che quello del depresso venga preso per un atteggiamento capriccioso, per un’indolenza della persona che non si dà da fare, per uno stato di pigrizia, quando, invece, abbiamo a che fare con uno stato di profondo malessere, capace di paralizzare. Comunque, la sensazione di non essere capiti è un tema ricorrente nelle parole delle persone che soffrono di depressione. Dai miei pazienti io ho sentito dire: "Preferirei avere un tumore, piuttosto che soffrire di depressione”, perché così almeno si attiverebbe la compassione e il riconoscimento da parte dell’altro: "Invece così, sembra tutto un capriccio”, uno stato secondario, mentre lì invece c’è proprio la questione primaria. Freud si è interrogato a lungo su questo dolore: come può nascere il dolore psichico?
La depressione è anche una reazione al dolore stesso, una sorta di protezione, una forma analgesica, almeno nel suo intento...
Questo è il paradosso della depressione. All’origine che cosa c’è? Un evento di perdita, più o meno avvertita, a cui la persona ha dato maggiore o minore importanza, o non ne è nemmeno stata cosciente. Dopodiché vi è una perdita che ha luogo nell’attuale, nell’oggi, la quale rievoca quella perdita avvenuta in epoche precedenti che appunto non è stata sufficientemente elaborata.
Nella depressione c’è, diciamo, un evento contingente che però riattiva un episodio avvenuto in un’epoca in cui il soggetto non era riuscito a dare parola a quel vissuto. Questo schema si ritrova, direi, nella totalità dei casi di depressione. E allora cosa succede? Che si attiva quel processo complicato, che Freud studia in Lutto e melanconia, cioè il meccanismo del lutto: di fronte a una perdita si attiva il processo del lutto, che è un lavoro. Ma il lavoro del lutto in cosa consiste, in fondo? Consiste nel far sì che la perdita venga accolta, cioè che il soggetto possa trasformare l’oggetto che non c’è più (che può essere una persona amata, una rappresentazione di sé, una condizione lavorativa, eccetera) in un ricordo accettabile.
Ecco, nella depressione questo non accade. Cioè, nella depressione si ha difficoltà a elaborare il lutto della perdita. C’è una fissazione della perdita, il che è un paradosso. Come dire: al fine di non affrontare il faticoso lavoro per uscire dalla perdita, che comporta sempre un momento drammatico di vacillamento soggettivo ...[continua]
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