Gian Enrico Rusconi, storico e politologo, ha pubblicato, tra l’altro, 1914: attacco a Occidente, Il Mulino 2014.

La Grande guerra è stato un conflitto "improbabile” o "imprevedibile” come afferma con una certa insistenza molta recente storiografia?
In verità l’interrogativo se la Grande guerra sia stata un evento prevedibile, addirittura inevitabile oppure un evento imprevedibile o improbabile (come si preferisce dire oggi) accompagna da sempre la riflessione storiografica. Ma per la messa a fuoco di questo interrogativo vengono usati concetti tutt’altro che omologhi o interscambiabili. È un fatto che oggi, dopo l’enorme lavoro analitico compiuto per decenni sulle cause "strutturali” e remote della guerra, che l’avrebbero resa prevedibile se non inevitabile, oggi l’analisi tende a spostarsi sulle possibilità che la guerra potesse essere evitata. E quindi ci si chiede perché si è verificata nei tempi e nelle modalità che conosciamo e -in via subordinata- perché non si è interrotta tempestivamente.
Questo approccio presuppone che ci si concentri con grande attenzione sulla fase iniziale, decisionale e scatenante del conflitto, cioè sulla crisi politico-diplomatica del luglio 1914 e sulle prime operazioni belliche dettate dai piani militari precedentemente messi a punto. Occorre quindi distinguere bene la fase relativamente breve che va dall’assassinio di Sarajevo (28 giugno) alla battaglia della Marna (metà settembre), dalla lunga terribile esperienza dei quattro anni successivi che si imprimerà indelebilmente nella memoria collettiva come "la Grande guerra”.
Oggi gli storici che parlano di conflitto "evitabile”, partono dalla convinzione che "la successione degli avvenimenti che condusse allo scoppio delle ostilità avrebbe potuto essere interrotto in qualsiasi momento nelle cinque settimane che precedettero gli scontri armati, se la prudenza e la buona volontà avessero trovato modo di esprimersi” (John Keegan). Già. Ma il punto è proprio perché non c’è stata "prudenza e buona volontà” nei decisori politici. Come dobbiamo giudicare "le buone ragioni” di segno opposto avanzate dai protagonisti nel corso del processo decisionale che ha portato a un esito oggi giudicato assurdo, e le motivazioni dei responsabili politici che hanno convinto (almeno apparentemente) i loro popoli che era necessario affrontare una grande guerra di difesa nazionale?
Parlare di guerra "assurda” dalla genesi inspiegabile (Stig Förster), di "guerra basata su paradossi” (Herfried Münkler), di "tragedia, anche se non di crimine”, nella quale i protagonisti si sono mossi come "sonnambuli”, incapaci di dominare la complessità degli eventi (Chistopher Clark) - suona persuasivo. Soltanto a prima vista. Si tratta infatti di affermazioni che creano soltanto l’illusione di capire quanto è successo.
La domanda chiave per poter definire con precisione le mosse dei decisori, valutare la loro responsabilità graduata, per così dire -innanzitutto per i governi della Germania, dell’Austria, della Russia- è capire "quale guerra” avevano in testa. Se locale, se continentale, se generale e come si è verificata l’escalation tra i tre livelli.
È corretto qualificare la Grande guerra come un evento rivelatore della modernità occidentale, addirittura delle aporie della sua razionalità?
L’evento che oggi ci appare così irrazionale nel suo esplodere è stato pensato, immaginato e affrontato con un investimento di razionalità operativa-allo-scopo (strategie e tecnologie militari) e razionalità argomentativa (nelle polemiche reciproche caratteristiche di una "guerra di civiltà”) senza precedenti. Mai nessuna guerra precedente era stata elaborata tanto scientificamente con un enorme impegno di programmazione operativa, logistica, tecnologica.
La Germania, sotto i pennacchi e gli elmi a punta, il sussiego e la pompa della liturgia militare, c’è un apparato tecnico-industriale moderno, sostenuto da una grande professionalità. La macchina bellica tedesca riflette la qualità tecnologica di uno sviluppo industriale tra i più avanzati, almeno sul continente europeo. La tecnica, la macchina, l’ordine e la disciplina del lavoro moderno sono in singolare simbiosi con la mitologia nibelungica. È la modernità travestita da wagnerismo e da un classicismo filologicamente puntiglioso. È la modernità del guglielminismo che nonostante i suoi travestimenti anacronistici si pone all’avanguardia nella competizione con l’Occidente. Anzi, a ben v ...[continua]

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