Perché la plastica ha avuto tanto successo?
La ragione del successo della plastica sta nel suo stesso nome: è un materiale plasmabile. Il sogno di chi ha a che fare con i materiali è quello di plasmarli, di dargli forma, di creare degli oggetti; un desiderio, una passione che esiste da sempre. Anche il vetro lo puoi plasmare, ma serve un forno con un soffio, delle pinze. Mentre invece la plastica si può formare, in maniera ripetitiva, a temperature relativamente basse, 150-200 gradi, grazie a delle semplici presse a iniezione.
Il successo presso l’utente sta nel fatto che permette a tutti di avere a prezzi ragionevoli sul mercato un contenitore, una tinozza dove lavare i panni, una scopa diciamo non deperibile, eccetera.
Per l’industria invece, oltre alla plasmabilità, alla plasticità per meglio dire, c’è il vantaggio che un manufatto in plastica è riproducibile in grandissimi numeri. La plastica è un materiale industriale. In questo senso permette di uscire dal laboratorio artigianale, ma anche da un approccio scientifico che riservava le conoscenze tecnologiche a un cerchio ristretto di ingegneri o di scienziati. Anche una piccola impresa familiare può metter su una pressa da stampaggio a iniezione. È quello che è accaduto qui negli anni Cinquanta: in Toscana è pieno di queste piccole realtà che compravano la plastica in granelli e, grazie a una macchina stampatrice, producevano vasi, tinozze e tanti altri oggetti. Non c’era bisogno di grandi ingegneri, bastava avere una conoscenza di base dei parametri di processo di questo materiale.
Dicevi che ora siamo entrati però in un’altra fase...
Sì, lo scenario delle imprese familiari che producevano oggetti in plastica negli anni Cinquanta in Italia è superata. Ci sono ancora quelli che hanno la macchina nel sottoscala e fanno cose di basso valore (o anche cose molto sofisticate). Però si è raggiunto uno stadio stazionario: più in là di lì non si va. Infatti tanti hanno smesso di fare quel mestiere.
Cos’è successo? Che è entrato in campo un altro concetto di "dare forma”. Non si tratta più di usare un calco metallico nel quale coli, inietti o termoformi, ma di costruire questa forma con un algoritmo (quindi matematica della costruzione in tre dimensioni) che permette di rilasciare il materiale, dall’ugello, partendo da una base e procedendo per successivi passaggi facendo "crescere” l’oggetto fino al suo completamento. In pratica, l’algoritmo matematico che guida la macchina dice, ad esempio, alla quota zero me lo stendi facendo questa sagoma, alla quota zero punto uno lo stendi facendo quest’altra sagoma e così via.
La forma, insomma, non è più dettata da uno stampo nel quale tu coli, versi, inietti del materiale plastico, ma si crea per accrescimento. È il cosiddetto "additive manufacturing” citato anche da Michael Spence, premio Nobel per l’Economia 2001.
Stai parlando della stampante 3D?
Esattamente. Si parte da un modello Cad che viene suddiviso in strati da un software digitale. La stampante 3D funziona attraverso una alimentazione costituita da bobine di filo calibrato, che ha cioè uniformemente lo stesso spessore per tutta la sua lunghezza. Il filo viene fuso all’interno della camera dalla stampante e la plastica viene rilasciata in straterelli guidati da questo algoritmo; gli strati possono avere una risoluzione bassissima, anche di 20 micron, cioè 0,02 millimetri.
La stampante 3D si è diffusa molto negli ultimi tempi, soprattutto a livello di hobby. Però c’è un comparto industriale, quello dei prototipi, che è molto importante e anche molto esigente rispetto al tipo di materiale. Per esempio, nel campo della gioielleria, i prototipi si fanno con stampanti 3D utilizzando materiali molto particolari, che non sono proprio metalli, ma particelle di metallo in una matrice plastica.
Nonostante se ne parli tanto, il numero di stampanti 3D nel mondo resta contenuto. Questa possibilità di farsi gli oggetti in casa o di fare i prototipi nell’industria non è ancora de ...[continua]
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