Lei ha elaborato il concetto di "impolitico" inteso non come antipolitica, ma come tentativo di una politica più radicale...
Il tema dell’impolitico nasce dalla sensazione che le categorie del lessico politico contemporaneo siano in qualche modo esaurite, che non illuminino realmente quell’ambito dell’agire umano che chiamiamo "politica". Le cause di tale esaurimento sono molteplici ed hanno diversa origine, ma trovano un loro punto di radicamento dirompente nella crisi degli anni ’20 e ’30 di questo secolo, che non a caso è la stagione in cui, nell’ambito della filosofia, Heidegger attua la decostruzione della metafisica, mentre Wittgenstein compie un tentativo simile nell’ambito del linguaggio scientifico. In quegli anni, nell’opera di scrittori come Hermann Broch o Maurice Blanchot, di filosofi come Simone Weil, Georges Bataille e Hannah Arendt, di teologi come Karl Barth, emerge una linea di pensiero che, pur nella estrema diversità esistente fra essi, cerca di cogliere "alle spalle" i concetti e la realtà della politica, quindi di guardarli anche da quei lati che normalmente il pensiero politico classico lascia in ombra o decisamente nasconde. Questo tentativo è quanto ho appunto definito "impolitico", scegliendo questo termine anche per marcare la differenza di quanto emerge da questi autori rispetto ad altre nozioni, apparentemente affini, come, ad esempio, l’antipolitica.
L’atteggiamento impolitico, come peraltro dimostrano le biografie di quasi tutti gli autori che ho indagato, non è infatti contrario alla politica, non è appunto antipolitico, ma è una forma di radicalizzazione dell’impegno politico nel pensiero.
L’impolitico, in sostanza, è l’atteggiamento intellettuale che da un lato guarda alla realtà politica, quindi ai conflitti d’interesse, al potere, in modo molto realistico, mentre, dall’altro lato, non considera questa stessa realtà un valore in sé, non facendone alcuna apologia e quindi rifuggendo ogni teologia e ogni filosofia della politica. L’impolitico, insomma, è una maniera decostruttiva di guardare alla politica che mette in luce come, generalmente, la tradizione filosofico-politica abbia sempre insistito sul problema dell’ordine, cioè su come ordinare la società, su quale sia il regime migliore, e quindi abbia sempre finito per evitare la questione di fondo della politica stessa, cioè il conflitto. Nel pensiero filosofico-politico moderno, ad esempio, già in Hobbes, che ne è l’iniziatore, l’irriducibilità del conflitto viene sostanzialmente rimossa. Dice infatti Hobbes che perché ci sia ordine deve scomparire ogni tipo di conflitto, quindi ci vuole un sovrano che eserciti il potere senza lasciar spazio non solo ad alcuna forma di conflittualità, ma addirittura a qualsiasi forma di aggregazione. L’ordine, quindi, è stato pensato come radicalmente contrapposto al conflitto, che pertanto è stato visto come eliminabile. A differenza di questa concezione, l’impolitico cerca di far riemergere la realtà, l’irriducibilità, del conflitto perché, come già diceva Platone, "In ogni uomo, in ogni anima, c’è una lotta fra parti diverse, cavalli che tirano la biga in direzioni opposte". Il conflitto, come sapevano anche sant’Agostino o Machiavelli, è una realtà originaria, un costituente irrinunciabile della realtà e della civitas perché è dentro ciascuno di noi.
Ma l’idea del contratto, così come è intesa dal liberalismo, non tiene conto di questa originarietà e irriducibilità del conflitto?
L’idea del contratto, formulata da Hobbes, da Rousseau e da altri pensatori e in gran parte travasata nel liberalismo, parte dal presupposto che originariamente, almeno dal punto di vista logico, gli uomini siano fra di loro in una posizione di assoluta uguaglianza e possano quindi stringere un contratto, che in quanto tale implica appunto una sostanziale parità fra i contraenti. Autori come il già citato Machiavelli, Vico, lo stesso Hegel, obiettano a questa concezione che, siccome nella realtà questa uguaglianza originaria non è mai esistita, occorre prendere atto che i rapporti di forza precedono e determinano la forma della contrattazione, la qual cosa, fra l’altro, significa che il diritto ha comunque a che fare con la forza.
Avendo presente tutto que ...[continua]
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