Come è successo che una società, prima cooperativa, che si occupava principalmente di internazionalizzazione delle imprese, oggi si occupi di creazione d’impresa sociale e di individuazione ed elaborazione per il soggetto pubblico di politiche per le categorie svantaggiate, principalmente immigrati?
Ci siamo sempre occupati di sviluppo compatibile, non solo ecocompatibile ma vorrei dire anche omo, antropocompatibile. Dentro lo sviluppo omocompatibile rientrano tutti i settori svantaggiati, quindi anche gli immigrati. Oggi è vero, lavoriamo molto su questo, ma continua sempre il nostro lavoro internazionale. Forse è proprio per il fatto che da anni lavoriamo nei paesi africani o sudafricani che molto presto, direi già una ventina di anni fa, abbiamo sentito come questi mondi si stessero proiettando verso l’Europa. L’Italia non era ancora investita in pieno, ma era inevitabile che anche noi si diventasse oggetto di questo fenomeno. La prima idea fu quella di un’agenzia per il lavoro. Questa idea si è sviluppata in tutta una serie di iniziative. Le ultime, i programmi Integra, hanno come obiettivo l’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro e nella società italiana.
Quale è stato il primo lavoro che avete fatto sull’immigrazione?
La prima esperienza organizzata è stato un progetto in Piemonte, sei anni fa. Era un progetto dell’Ires, a cui abbiamo collaborato. L’idea era questa: c’erano una serie di aziende che lavoravano con i paesi maghrebini, avevano rapporti d’affari, alcune avevano delle joint venture, però spesso le aziende si lamentavano della incapacità di creare delle relazioni dirette con questo mondo. C’era anche nel fondo un sentimento di diffidenza degli arabi verso di noi e nostra nei confronti del mondo arabo. L’idea fu di prendere un gruppo di giovani immigrati con diploma o anche laureati che potessero diventare dei mediatori in parte culturali in parte d’affari tra queste aziende e le loro consociate o con le aziende con cui avevano rapporti in questi paesi. Fu fatta una selezione di circa 25 di questi giovani, e non ci fu difficoltà a trovarli, venne organizzato un corso di formazione di base, poi dei colloqui e ciascuna azienda ha preso quello che corrispondeva ai suoi interessi. Nell’azienda hanno fatto uno stage di sei mesi e poi in gran parte sono stati assunti e proprio con la qualifica di mediatori culturali e d’affari.
E’ stata un’esperienza positiva?
Molto positiva e interessante. Per le aziende e per gli immigrati. Le aziende avevano nel paese arabo una persona di lì, che parlava la lingua e conosceva il sistema delle relazioni, e che al tempo stesso era una persona loro, un dipendente, che faceva carriera nella loro azienda. Per cui faceva i loro interessi ma sapeva benissimo quale era la cultura delle imprese, del mondo imprenditoriale dell’area maghrebina. I giovani immigrati avevano trovato un lavoro al livello del loro titolo di studio in cui potevano esprimere la loro capacità professionale. Si relazionavano al loro mondo pur avendo un successo professionale, economico, che gli derivava da questo mondo.
Puoi parlare dei programmi Integra?
Sono programmi di integrazione per i soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro. Stiamo lavorando sull’area di Venezia e Verona, Torino e Bologna. Il programma veneto e torinese è per gli immigrati, quello di Bologna anche per tossicodipendenti, ex tossicodipendenti e disoccupati di lunga durata. All’interno del progetto (che nell’area veneta è del Cespo, a Torino di Medcartesio, un consorzio di imprese sociali legate a Don Picchi e a Bologna di Enaip, Ial e altre associazioni) noi ci occupiamo della ricerca, della formazione e dell’assistenza per la creazione di imprese autonome. Su Torino lavorano per la Matraia Carlo Mottura e Guido Viale, su Bologna Guido Andrea Lazzerini e io, su Venezia Carlo e io.
Come mai lavorate su progetti di lavoro autonomo?
Perché nel centro nord il mercato del lavoro dipendente non ha bisogno di aiuto. E’ ridicola questa proposta del sindaco di Milano Albertini di pagare meno gli immigrati. Già sono pagati meno, perché i loro titoli di studio non sono riconosciuti e quindi sono costretti a fare un lavoro inferiore, lavorano quasi sempre in piccole e medie aziende e, di fatto, hanno meno diritti sindacali; lavorano nelle situazioni più usuranti perché fanno solo i ...[continua]
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