Alessandro Gamberini, avvocato, ha sostenuto la difesa di parte civile, fra gli altri, nei processi di Ustica, della Uno bianca, della Montedison.

L’Associazione nazionale magistrati ha fatto lo sciopero contro la proposta governativa di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Da un punto di vista del metodo, cosa pensi dell’uso dello sciopero da parte di un pezzo di ordinamento dello Stato?
Non mi scandalizza l’utilizzazione dello sciopero come sciopero politico, cioè come strumento di pressione o di manifestazione del dissenso rispetto ad iniziative parlamentari o di governo, da parte di categorie che non sono tipicamente legate al rapporto di lavoro subordinato. Lo considero del tutto lecito, anche se, proprio perché si tratta di magistrati che esercitano una funzione istituzionale, un potere particolarmente delicato, va ovviamente utilizzato in forma residuale ed eccezionale. Questo lo penso sostanzialmente anche degli avvocati, che invece lo hanno praticato in modo un po’ troppo disinvolto negli ultimi tempi, grazie alla eccitazione delle Camere Penali che si sono sentite di svolgere il ruolo privilegiato di “soggetto politico”. Diciamo che le ragioni che muovono i magistrati allo sciopero appaiono, da un lato molto chiare e, per altri versi invece, molto meno trasparenti e condivisibili. Molto chiare mi sembrano le ragioni di fondo: non vi è dubbio che il governo Berlusconi si è mosso, fin dalla sua origine, per ridimensionare, se non per umiliare, come qualcuno ha sottolineato, il potere dei magistrati. Lo ha fatto in modo evidente, con provvedimenti e progetti vari e attraverso dichiarazioni dei suoi esponenti. Ciò motiva in primo luogo la reazione dell’intero corpo dei giudici.
E riguardo al merito specifico del contenzioso? Credo occorra fare alcune precisazioni e alcune distinzioni. I magistrati italiani, almeno la loro componente maggioritaria, hanno negli anni trascorsi compiuto il grave errore di opporsi, in maniera più o meno forte, all’introduzione in Italia dei princìpi del giusto processo. Una resistenza che si è manifestata anche attraverso provvedimenti giurisdizionali, con numerose ordinanze di remissione alla Corte costituzionale di vari istituti del codice di procedura del 1988, che hanno trovato anche accoglimento nelle sentenze del 1992 e del 1998. Una scelta destinata, tra l’altro, ad essere sconfitta perché l’introduzione dei princìpi del giusto processo appariva ineludibile alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, con l’introduzione del nuovo art.111 della Costituzione e l’attuale legge applicativa, che ha finalmente disciplinato il principio del contraddittorio come momento indispensabile nella formazione della prova. Ancora oggi però molti settori della magistratura sottolineano le difficoltà che tale disciplina crea nel produrre risultati concreti. Ora, non vi è dubbio che l’attuale normativa, nel momento in cui pone al centro della regola cognitiva del processo penale il contraddittorio tra le parti e perciò il dibattimento, impedisce che il Pm possa considerare acquisita la prova sulla base delle dichiarazioni da lui raccolte. Ne ridimensiona perciò drasticamente il potere. Anche la “macchina da guerra” -com’è stata, a mio avviso, la magistratura inquirente, in particolare nel settore della lotta alla mafia e alla criminalità organizzata- subisce alcuni necessari ridimensionamenti, specie rispetto al sistema processuale, inaugurato dopo le sentenze della Corte costituzionale del ’92, che avevano disegnato un sistema processuale che ruotava pressoché esclusivamente sulla attività del Pubblico Ministero. La resistenza su quest’ultimo modello è stata, a mio avviso, una battaglia di retroguardia. Non si è tra l’altro compreso che quei princìpi costituivano anche un terreno fondamentale per spostare il piano della legittimazione della funzione giurisdizionale penale dal Pm al momento giudicante, ponendo le basi perché gli esiti dei processi possano essere socialmente accettati come frutto di un itinerario trasparente e garantito. Unico modo questo per attenuare se non eliminare la turbolenza che ha investito la giustizia penale, venuto meno l’unanimismo che aveva caratterizzato il consenso alle attività inquirenti da metà degli anni 70 fino all’esperienza di Mani Pulite.
Certo per parlare di processo giusto occorrerebbe mettere in campo molte altre cose. Occorre tenere sempre presente che questo bello strumento, costit ...[continua]

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