Matteo Rollier, sociologo, dopo essersi a lungo occupato nella Fiom di organizzazione del lavoro, ha fatto il consulente aziendale e attualmente partecipa a una società di manutenzioni industriali.

Come sei venuto a contatto con la Fiat?
Facevo parte di un gruppo di studenti del ‘68 che Trentin aveva deciso di inserire nel movimento operaio; inizialmente avrei dovuto occuparmi della formazione nella Fiom, poi, con l’autunno caldo, le priorità sono cambiate e mi hanno spostato su Mirafiori. Da lì ho cominciato a interessarmi di organizzazione del lavoro. Quello che c’era allora in Fiat si può definire un taylorismo autoritario e a bassi salari. Il taylorismo-fordismo infatti era stato introdotto negli Stati Uniti, anche a prezzo di forti resistenze, insieme a una politica di alti salari e di diritti, le seniorities, che ripagavano della perdita di professionalità. In Italia invece la sua introduzione risale al periodo mussoliniano, quindi in un contesto di bassi salari e di autoritarismo in fabbrica, che è poi il modello proseguito senza variazioni sostanziali fino agli anni ‘50. Davanti ai cancelli di Mirafiori vedevo persone che avevano lavorato in Germania (e allora erano tante), che non si capacitavano del fatto che in Fiat, quando la linea si rompeva, perdendo così un quarto d’ora di produzione, invece di scalare da quest’ultima il tempo perso, la linea tirava a manetta per ottenere un recupero produttivo. I recuperi, anche ammettendo che il taylorismo sia un’organizzazione scientifica del lavoro, non hanno nulla di scientifico, perché se stabilisco scientificamente il tempo da mantenere su una linea attraverso l’analisi dei tempi e metodi, la scomposizione dei tempi elementari e altri strumenti, non posso poi velocizzarlo a piacimento. Gli operai non se ne capacitavano e in realtà la battaglia principale di allora è stata proprio quella sui recuperi. Questo spiega anche perché, mentre negli Stati Uniti esistevano già da anni degli studi sulla rigidità eccessiva indotta dal taylorismo (Work in America, che fu voluto da Kennedy, precede almeno di 6 o 7 anni le lotte operaie in Italia), da noi quella rigidità non veniva percepita, perché veniva recuperata con la flessibilità nella gestione dell’organizzazione. Il controllo della velocità della linea, che in Volkswagen si dava per scontato, è stato invece il cardine delle rivendicazioni di quegli anni; si ottenne, ad esempio, il display che la segnalava in ogni momento. Ma prima ho parlato anche di compensazioni, come quelle attuate attraverso il sistema delle seniorities negli Stati Uniti. Io posso non essere d’accordo, però il fatto che ci sia una regola è sempre meglio dell’assenza di regole, perché sulle regole si può trattare. E comunque le seniorities evitano che la distribuzione dei posti venga lasciata alla discrezionalità dei capi. Chi è più vecchio ha diritto al posto migliore, che so, il meno nocivo, lasciato libero da chi va in pensione.
Nelle cabine di verniciatura il più anziano sta in piedi, quello appena arrivato invece sta giù, perché lì si respirano maggiormente sostanze dannose. Alla Fiat invece era il capo a decidere, per dirla con un frase allora in uso, “a seconda dei polli che gli portavano dalla campagna”. In sostanza, in Fiat la crisi di rigidità implicita nel taylorismo è esplosa in ritardo ed è stata accompagnata da una forte rivendicazione delle avanguardie sindacali per l’introduzione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, di cui già esistevano degli esempi anche in Italia. Penso alla Olivetti, dove avevano sperimentato le Umi1 e le Umi2, cioè le unità di montaggio integrate, o, prima ancora, la linea a spinta. Da noi c’erano due nuovi orientamenti prevalenti nell’organizzazione del lavoro: da un lato quello dell’Olivetti, più legato alla sociologia francese; dall’altro invece quello dell’industria di stato, con la sua componente di cattolicesimo progressista, che importava soprattutto modelli americani; ad esempio aveva tentato d’importare la job evaluation, discutibile finché si vuole, ma comunque preferibile all’uso discrezionale delle qualifiche.
Già allora però c’era chi sosteneva che è più facile applicare una certa flessibilità di mansioni e tempi quando si producono oggetti di piccole dimensioni...
Allora non si spiegherebbe come a quei tempi la Volvo fosse all’avanguardia. Nei primi anni ‘70 sono andato a studiare la Volvo di Kalmar, dove si faceva lavoro di gruppo, unità integrate basate sul ...[continua]

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