Valerio Pocar, docente di Sociologia del diritto all’Università Bicocca di Milano, è presidente della Consulta di Bioetica, un’associazione di cittadini di diversa formazione (filosofi, operatori sanitari, giuristi) e di differente orientamento, impegnata a promuovere lo sviluppo del dibattito laico e razionale sui problemi etici nel campo della medicina e delle scienze biologiche.

Che valutazioni possiamo trarre dal caso Terri Schiavo?
La mia impressione è che innanzitutto il dibattito non sia stato corretto. La questione infatti è stata mal impostata: è stato presentato come un caso di eutanasia, fondamentalmente, mentre, al più, è un caso di rifiuto di accanimento terapeutico. E meraviglia che su questo punto ci sia stato tanto clamore. Evidentemente c’è stato un uso mediatico spregiudicato che certo non ha giovato alla chiarezza delle idee e neanche rispetto alla possibilità di portare avanti dei discorsi ragionevoli su queste materie, che sono davvero molto complicate e molto delicate.
Questa è la prima considerazione che possiamo fare.
Va poi fatta un’altra premessa: è stata fatta molta confusione anche riguardo le condizioni in cui versava effettivamente la signora Schiavo, come forse è più opportuno chiamarla. Perché un conto è pensare che una vita non meriti di essere prolungata e un conto è trattare una persona con un tono un po’ scanzonato. Di nessuna persona vivente si sarebbe parlato con un diminutivo…
Ecco, è sembrato che ci fosse controversia anche sulle condizioni. In effetti questa è rilevante come questione, perché se si tratta di un caso di stato vegetativo permanente o persistente è una questione; se il soggetto è in grado, in qualche misura, di recepire, di comunicare con l’ambiente e quindi di avere una seppur larvale condizione di vita, le prospettive evidentemente cambiano; sembrerebbe peraltro che la signora Schiavo fosse in stato vegetativo permanente e ormai da 15 anni. Ora, mi rendo conto di essere forse un po’ duro nel dire questo, ma le cose stanno così a mio modo di vedere. La mia idea è che, per quanto comprensibile umanamente; per quanto angosciosa fosse la situazione dei genitori della signora, semplicemente non hanno accettato che la loro figlia fosse morta 15 anni fa. Perché questo era il fatto. Si sono illusi che per il fatto che respirava ancora, questa figlia non fosse loro sfuggita. Purtroppo sappiamo che lo stato vegetativo persistente è uno stato non solo irreversibile, ma tale da annullare qualunque capacità cognitiva e sensitiva del soggetto. Adesso non sto a disquisire se sia corretta la definizione di morte intesa come morte cerebrale o se non si debba ormai pensare piuttosto a una definizione di morte come morte corticale. Però, di questo si tratta: la signora Schiavo era in condizione di morte corticale. Questo è un dato di fatto. E quindi l’accanimento terapeutico da questo punto di vista è particolarmente accanito, perché è totalmente insensato. Cioè non soltanto non c’è la speranza di poter migliorare in qualche modo le condizioni di vita del soggetto in questione, ma non c’è neanche la possibilità di renderlo edotto, per così dire, del tentativo. Noi sappiamo che in certe situazioni, quello che oggettivamente potremmo definire accanimento terapeutico può non esserlo soggettivamente, nel senso che può migliorare, in qualche modo, la qualità di vita del malato, o comunque recargli un qualche beneficio psicologico che in quel momento egli desidera. E’ il vecchio discorso: probabilmente non vale la pena di fare determinati trattamenti in un certo stadio della malattia, ma la richiesta da parte del malato “Fatemi vivere ancora sei ore perché so che mio figlio è partito dall’America e arriverà tra sei ore e lo voglio vedere ancora una volta prima di morire”; ecco, questo ha senso. Questo non è accanimento terapeutico, questo non è futile. Questo anzi è utile, perché si soddisfa un ultimo desiderio di una persona. Gli si fa effettivamente del bene.
Nel caso in questione no, non c’era più niente da fare. Non si poteva giovare sotto nessun profilo. E a questo punto c’è da chiedersi che senso abbia una vita in quelle condizioni. Se davvero sia vita.
Quindi mi pare che dal caso traiamo principalmente un insegnamento: che è bene non fare confusione e che una volta che chiamiamo le cose con il loro nome e inquadriamo le vicende nella loro realtà, molte cose diventano più semplici.
Ciò che ha colpito è stato che entrambi, marito e genitori, si arroga ...[continua]

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