Quello è stato l’ultimo giorno in cui vidi mio marito e mio figlio Nihad. Nino, resosi conto del precipitare della situazione, era fuggito attraverso il bosco in direzione di Tuzla, dove non arrivò mai. Era un giornalista di Srebrenica. Aveva raccontato l’assedio della nostra città fino all’ultimo giorno. Il 10 luglio aveva lanciato un appello al mondo: “Aiutateci o questa sarà l’ultima volta che sentite la mia voce. Non rimarrà nessuno a Srebrenica”.
E così è stato.
Io e mio marito, con altre 25.000 persone, ci muovemmo in direzione di Potocari. Lì i serbi presero mio marito. Vidi dove lo portarono. Tutte le famiglie furono separate e gli uomini, dai 12 agli 80 anni, furono portati via. Noi donne, coi bambini, fummo caricati su dei camion alla volta di Kladanj. Da Kladanj arrivammo infine a Tuzla.
Mio figlio scomparve durante il viaggio da Srebrenica a Tuzla. Non seppi più niente di lui. Il suo corpo non fu mai trovato, né identificato fra quelli riesumati.
Dopo otto anni vivo per il giorno in cui potrò seppellire il suo corpo nel memoriale di Potocari, assieme a quello di tutte le altre vittime di quel massacro.
Arrivati a Tuzla, sapemmo cos’era successo ai nostri uomini. Più di 10.000 persone risultavano scomparse. Ci rendemmo conto definitivamente di quale tragedia avesse colpito la nostra città.
Srebrenica era stata dichiarata dall’Onu “area protetta”, così dal 1992 al 1995 vi erano confluiti anche i profughi sfollati dagli otto villaggi dell’area circostante. La prima ondata di pulizia etnica infatti era cominciata nel 1992, con l’arrivo dei gruppi paramilitari nei villaggi circostanti.
Quei tre anni erano stati un inferno, e però io ancora oggi sottoscriverei di vivere anche per tutta la vita in quelle condizioni, se questo significasse avere ancora vicini mio figlio e mio marito…
Comunque erano stati anni infernali. Eravamo chiusi in una specie di enorme campo di concentramento, non avevamo niente, ma proprio niente, né cibo, né medicine, né elettricità o acqua, e ad ogni angolo c’era la morte in agguato per noi.
Mio figlio nelle ultime settimane aveva scritto dei versi su questo senso di attesa cui solo la morte incombente avrebbe posto fine...
Di fronte a dove lavoravo, presso la municipalità, c’era l’ospedale. Lì per tutto il tempo venivano portati i feriti. I medici erano costretti ad amputare gambe e braccia senza anestesia. La sofferenza dei pazienti, le loro grida erano qualcosa di semplicemente intollerabile… Alla sera, al momento di coricarmi avevo ancora quelle urla nelle orecchie.
Dal 1992 eravamo rimasti chiusi e bloccati all’interno di Srebrenica. Un’enorme prigione a cielo aperto in cui avevano ammassato circa 45.000 persone impossibilitate a lasciare la città. Ricordo che da un certo punto in poi sembrava che la stessa aria che respiravamo puzzasse. Un senso di soffocamento che ho ancora ben presente, qualcosa di indescrivibile.
Intanto le colline venivano occupate dalle milizie serbe che non permettevano né di uscire né di entrare; non lasciavano entrare nemmeno i convogli che portavano il cibo. Così, presto, anche i convogli di aiuti umanitari smisero di arrivare: venivano fermati prima.
Come sopravvivevamo? Per un periodo ci venivano lanciati vari generi di prima necessità dagli aerei o dagli elicotteri. L’ultimo anno un solo convoglio entrò a Srebrenica. In quell’occasione ricevemmo due chili e mezzo di farina a testa. Anche i pochi convogli che arrivavano, del resto, venivano prima fermati a Bratunac, sotto controllo serbo, e dopo quella sosta a noi arrivava al massimo qualche vecchia coperta e poco altro.
Alcuni dei profughi arrivati a Srebrenica dai villaggi vicini, per sopravvivere, a volte di notte tornavano ai loro campi per raccogliere qualcosa da mangiare. I nazionalisti serbi delle varie milizie avevano ormai occupato tutti quei villaggi e bisognava muoversi solo a notte fonda. Correvano rischi gravissimi per por ...[continua]
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