È da vent’anni che dirigi degli istituti penitenziari. Puoi raccontare?
Ho cominciato nel 1991 al Marassi di Genova e fin dall’inizio sono rimasta colpita dal contrasto tra quello che dice la Costituzione, la legge, e quello che si fa. E questo -attenzione- non perché siamo cattivi o vogliamo far del male, ma proprio perché, evidentemente, la cultura del carcere, dell’istituzione totale, del potere assoluto sulle persone, è antitetica rispetto al percorso educativo. Questo non lo dico io, ma Goffmann, Foucault e altri studiosi. Per cui fin da allora la sfida per me è stata quella di provare a conciliare la rieducazione con quell’assoluto annullamento della personalità che è in qualche modo intrinseco dell’istituzione totale. Ho dunque impostato il mio lavoro preoccupandomi soprattutto di quest’aspetto, forse anche in maniera maniacale, perché volevo sostanzialmente che questa macchina carceraria, prima ancora di funzionare, avesse un senso.I tre anni e mezzo di Marassi sono stati molto formativi da questo punto di vista perché mi hanno messo dentro questo calderone fumante d’umanità devastata. In seguito sono arrivata a Eboli, una realtà molto piccola, con cinquanta detenuti, dove ho potuto sperimentare in vitro quella che era la mia ambizione: restituire, cioè, un senso alla giornata del detenuto. Già in quel contesto abbiamo allentato la morsa dell’istituzione totale, del potere assoluto, offrendo ai detenuti la libertà di movimento, di decisione, di autodeterminazione. Tutto ciò, tra l’altro, lavorando con una categoria di detenuti molto problematici, i tossicodipendenti, che hanno una propensione alla recidiva notevole. L’abbiamo fatto puntando sulla responsabilizzazione, sul lavoro all’esterno e costruendo, allo stesso tempo, tutta una serie di regole.Alla fine però mi ero stancata del Sud e dei piccoli numeri: il carcere piccolo può essere anche un po’ soffocante.Ma soprattutto volevo dimostrare che quello che ero riuscita a ottenere in piccolo, era possibile anche con i grandi numeri. A Eboli poi era dura. Considerando che, nel nostro lavoro, si può restare anche tanti anni nello stesso posto, ho dato segni d’insofferenza. Quindi il Ministero mi ha trasferita a Bollate, dove era appena nata questa sperimentazione, voluta dall’allora provveditore Felice Bocchino e dall’allora direttore del carcere di San Vittore, ora provveditore, Luigi Pagano. Il progetto prevedeva una custodia attenuata dove si lasciava spazio all’organizzazione, all’autodeterminazione e alla selezione dei detenuti.
Come si arriva a Bollate? Siete voi o il detenuto a scegliere?
Ci si sceglie, nel senso che il detenuto intanto domanda di venire a Bollate. Quindi c’è un primo presupposto di tipo soggettivo, cioè la volontà di usufruire di una serie di opportunità. Questo è importantissimo perché permette di avere con il carcere un rapporto fin da subito più negoziale, meno subìto.
Altri presupposti sono invece oggettivi, ovvero il non appartenere alla criminalità organizzata, l’avere una condotta penitenziaria più o meno regolare, avere idoneità psicofisica a stare in un carcere così aperto. Ci sono persone che non si trovano bene e preferiscono stare chiuse. Bisogna poi avere una pena che non sia troppo lunga e nemmeno troppo breve, dai quattro ai vent’anni. Date queste condizioni c’è poi un’equipe che seleziona. Infine sarà il provveditorato, se è in regione, o il dipartimento, se è fuori regione, ad assegnarli definitivamente all’istituto. A quel punto si apre un periodo di prova, al termine del quale, il detenuto, se non è ritenuto idoneo, per tutta una serie di ragioni, va via. Ma non succede spesso.
Dicevi che una delle condizioni per venire qui è quella di accettare la convivenza con gli autori di reati sessuali...
Questa è una grande conquista di civiltà. In questi vent’anni è forse la cosa di cui sono più orgogliosa, cioè di aver superato un pregiudizio. Pregiudizio derivante dalla subcultura criminale, e molto spesso anche dalla nostra, che considera ...[continua]
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