Nelle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma è uscita la ristampa anastatica del Matteotti (1924) di Piero Gobetti con schede bio-bibliografiche di Alessia Pedio e postfazione di Marco Scavino. È il ventisettesimo volume di una collana a cura di un Comitato presieduto da Bartolo Gariglio, che ha il programma di ripubblicare i 114 titoli delle edizioni gobettiane. Abbiamo parlato della figura di Matteotti e del libro di Gobetti con Marco Scavino, storico dell’Università di Torino, autore di molti saggi sull’intellettuale antifascista torinese e sull’età giolittiana (La svolta liberale 1899-1904. Politica e società in Italia alle origini dell’età giolittiana, Guerini e Associati, 2012).

Il 10 giugno ricorrevano i novant’anni dall’assassinio di Matteotti. Giacomo Matteotti è ricordato nei manuali per le scuole come vittima della violenza fascista, ma in generale si sa poco della sua figura di dirigente socialista e di segretario del Partito Socialista Unitario turatiano che si separò dai massimalisti nel 1922.
Matteotti era di una generazione più giovane rispetto ai fondatori del partito socialista e anche ai massimi dirigenti del partito unitario. I leader indiscussi rimanevano quelli della generazione più vecchia, Turati, Treves, Modigliani. A quanto se ne sa, la scelta di affidare la segreteria a un personaggio relativamente giovane (Matteotti era del 1885) rispondeva a una comprensibile esigenza di rinnovamento interno, e poi all’intenzione di offrire un’immagine del socialismo il più possibile svincolata dalle polemiche a cui inevitabilmente erano legate le figure dei dirigenti più anziani.
Matteotti aveva avuto fino al dopoguerra un percorso di formazione e di attività molto locale, incentrato nella sua regione di nascita, il Veneto, e nello specifico in Polesine. Ma soprattutto Matteotti rappresentava un pezzo importante di ciò che il partito socialista italiano era stato e, malgrado tutte le difficoltà, continuava a essere, quanto a radicamento sociale nelle zone di bracciantato agricolo, dove era riuscito anche ad assumere il controllo di numerose amministrazioni comunali: un esperimento pratico di conduzione della lotta di massa, legata soprattutto al controllo del mercato del lavoro, che storicamente aveva portato al tentativo di tradurre le idealità del socialismo in una prassi concreta di governo locale a favore delle classi lavoratrici. Le grandi lotte in quell’area vertevano soprattutto sugli "imponibili di manodopera” (la quantità di lavoratori che nel dopoguerra, in certe zone, gli imprenditori erano obbligati ad assumere); e non c’è dubbio che le grandi battaglie dell’immediato dopoguerra, del cosiddetto "biennio rosso”, fossero legate alla volontà padronale di spezzare quel tipo di organizzazione.
Dal punto di vista storico, inoltre, è importante ricordare che nelle zone agricole come il Polesine il riformismo socialista esercitava un’egemonia pressoché indiscussa all’interno dei movimenti di classe. Parliamo di territori in cui lo scontro sociale era radicale, a volte anche violento, ma in cui le componenti riformiste risultavano fortissime, molto più di quanto non lo fossero -ad esempio- nelle grandi città e nei centri industriali. È un dato storico sul quale occorre sempre riflettere attentamente.
Tornando a Matteotti, credo che in quelle zone fosse davvero un personaggio molto stimato, rispettato, quasi amato, per ragioni che in parte sono quelle esposte da Gobetti nel suo scritto: la competenza in questioni amministrative ed economiche, unita a un fortissimo pragmatismo. E credo che questo suo rapporto diretto con le organizzazioni e con le realtà di base sia la chiave di lettura più utile per comprendere anche quei tratti di radicalismo della sua posizione all’interno del partito, che vengono sempre sottolineati nei profili biografici di Matteotti. Sulla guerra, per esempio, aveva avuto una posizione decisamente più intransigente rispetto a Turati, Treves e ad altri riformisti. E così pure sul problema di come fronteggiare il fascismo e poi di come combattere il governo Mussolini. Non perché fosse meno legalitario e gradualista dei suoi compagni, ma perché la sua formazione e le sue esperienze lo portavano a mantenere sempre ben ferme certe istanze politiche e ideologiche di fondo. In questo senso credo che Matteotti esprimesse, a ben vedere, tutti i pregi e, al tempo stesso, tutti i limiti della cultura politica della Seconda Internazionale: per un verso la ferm ...[continua]

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