Il dibattito sorto attorno alla nascita di un Museo del fascismo a Predappio ha aperto una discussione anche su come raccontare il fascismo, in particolare ai più giovani.
A mio avviso il dibattito è nato da un equivoco. L’equivoco è quello di pensare che un gruppo di storici si sia messo in testa di voler fare il museo nazionale del fascismo -del fascismo, sottolineo la preposizione-, a Predappio. Non è così. In realtà, all’origine c’è l’iniziativa di un sindaco che vuole trasformare quello che negli anni è stato un luogo del pellegrinaggio, della memorialistica neofascista in qualcosa di diverso, utilizzando tra l’altro un bel manufatto architettonico che è la Casa del fascio locale. Quindi il percorso è stato esattamente l’inverso, dal particolare, dal locale a un progetto che però può assumere una rilevanza e un interesse nazionali, trattandosi della prima esperienza in Italia. Possiamo pensare a questo museo anche come a un’apertura, un battistrada, un rompighiaccio per favorire altre esperienze del genere.
Alcuni hanno avanzato perplessità proprio sul termine museo. Qui secondo me c’è un’idea vecchia, che vede il museo come commemorazione, come luogo in cui si sacramentalizza una memoria, più o meno pubblica, più o meno condivisa. Non è così, già da diversi decenni oramai i musei sono luoghi di documentazione e al contempo luoghi di educazione -uso proprio questo termine- della cittadinanza. Parliamo quindi di luoghi attivi, interattivi, apparentati da un lato con la ricerca scientifica e dall’altro con l’esigenza di divulgazione di quella stessa ricerca.
In questo senso il museo contemporaneo è uno snodo, un luogo che fa da interfaccia con mondi che purtroppo spesso in Italia non riescono a collegarsi. Non abbiamo una tradizione di divulgazione scientifica alta come c’è invece in Francia, in Gran Bretagna.
Va anche chiarito che non è un museo del fascismo, bensì sul fascismo.
Allora qui mi sembra che l’elemento più importante sia la domanda su come si fa a trasmettere, comunicare, raccontare a un ragazzo di oggi l’esperienza di come piano piano, gradualmente, quasi senza accorgersene si scivola dentro una dittatura.
Questa domanda ne contiene un’altra, che sta a monte: che cos’è una dittatura?
Attorno a questo museo sarà importante aprire una discussione collettiva, di tutti gli interessati, che non sono solo gli storici di professione: ci sono gli insegnanti, i semplici cittadini, i testimoni e sopravvissuti del periodo; penso a una comunità che non è propriamente scientifica perché è molto più ampia, ma che è ugualmente interessata a dare un contributo a questa doppia domanda: che cos’è una dittatura e come ci si scivola dentro.
La nostra idea è che per rendere questo itinerario storico, la cosa migliore siano delle biografie, cioè delle storie di persone, individui in carne e ossa, che siano in qualche modo esemplari di come si scivola dentro una dittatura.
Allora, la prima biografia che mi viene in mente è quella di un reduce della Grande guerra, un ex combattente che diventa fascista. Io qui delineo una tipologia, poi bisognerà trovare una persona, un nome, un cognome.
La Grande guerra è la prima esperienza nazionale in cui lo stato ti chiama e ti strappa dal tuo campo in Sicilia, dalla tua officina in Lombardia, e ti porta in questo inferno dove si rischia la vita ogni giorno e dove si apprende la violenza. È anche la prima esperienza di massa. Ora, chi apprende la violenza, nel dopoguerra diventa un disadattato, di qui la genesi di un movimento politico che riproduce la violenza del tempo di guerra anche nel tempo della pace.
Qui c’è tutto un percorso di studi che approda alle ricerche di Emilio Gentile. Gentile è il più deciso nel dire che il fascismo non è un totalitarismo imperfetto, è stato fin dall’inizio un totalitarismo vero, autentico, profondo, proprio per questo nesso con la violenza nella Prima guerra mondiale.
Ci sono alcuni dati poco noti: i morti per violenza politica fatti dai fascisti nel biennio ’20-’21, prima della marcia su Roma, sono quasi quattro volte quelli che fanno le SS, le SA, in Germania nel ’31-’32, cioè nel biennio che precede la nomina di Hitler a cancelliere nel ’33. È chiaro che c’è più di una spiegazione per questo surplus di violenza politic ...[continua]
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