Cuneo e Torino
Per usare le parole di Adriana Luciano: "Proprio nei quadranti in cui è più sviluppata la Knowledge Economy i tassi di disoccupazione sono più alti, i salari sono più bassi ma si lavora più ore, le donne lavorano di più ma i servizi per la prima infanzia scarseggiano. Torino, che anche dall’analisi statistica si rivela l’area in cui si concentrano i più elevati stock di risorse KE, ha più disoccupati, più contratti atipici, più poveri. E la crisi, che fa segnare il passo ai processi di innovazione, fa crescere anche il disagio sociale”. E più avanti: "Il massiccio esodo di lavoratori non qualificati dalle fabbriche in crisi non può essere compensato dai pochi posti di lavoro ad alta qualificazione che si creano nei settori high tech e in un terziario che stenta a decollare se non nei suoi segmenti più poveri”. A Cuneo però non si è solo conservato. Anziché tentare di promuovere un’economia fondata sulle conoscenze formalizzate, in totale discontinuità con le produzioni già presenti, si è realizzata una innovazione di prodotto e di processo nelle aziende esistenti e nelle produzioni tradizionali. Uno sviluppo graduale anziché il tentativo di far crescere da zero attività nuove. "Ecco svelato il paradosso Cuneo. Un territorio robustamente ancorato a tradizioni produttive locali sta sperimentando una via alla learning economy in cui innovazione e tradizione cercano nuovi punti di equilibrio facendo leva su risorse locali nascoste, e per questo non vive i contrasti dell’area metropolitana. Ma l’esperimento non diventa sistema e corre il rischio di esaurirsi se non aumenterà il livello di scolarità della popolazione, se non si intensificheranno le relazioni tra imprese, amministrazioni locali, enti di ricerca, se non si invertirà la spinta all’accentramento... se non verrà data alle generazioni più giovani l’opportunità di assumere la guida dell’economia e delle istituzioni locali”. La curatrice aggiunge altrove che Torino non fa da centro di smistamento e distribuzione delle risorse ma le assorbe direttamente, in concorrenza con le altre province, che, nondimeno, talora, vanno molto meglio. Posso aggiungere, citando dal libro, che gli investimenti in Ricerca e Sviluppo, in Piemonte, sono molto diffusi nei settori elettrotecnica, beni strumentali, agroalimentare, mezzi di trasporto -cioè quelli tradizionali- e molto meno diffusi nei settori media e comunicazione e stile.
Detto altrimenti: la Rai sta praticamente chiudendo la sede di Torino, che sembra impenetrabile, se bisogna entrarci, ma vuota, deserta, una volta entrati. Malgrado il Tff, non si fa più cinema. La Utet prima si è spostata ad Alessandria e poi ha chiuso buona parte dei settori. La Einaudi ha mantenuto la sede, ma ha la direzione vera altrove. Molte iniziative battezzate cultura -che è un’attività, non un consumo- sono promozione del turismo, che porta soldi agli alberghi e ai musei, cosa ottima, ma non genera lavoro qualificato. La vera attività è stata il restauro delle residenze sabaude, che è stato fatto bene, ma è finito. Il resto è pubblicità. Persino il ristorante più famoso del Piemonte sta a Cuneo. Per quel che riguarda la rete, le connessioni, le interazioni. Nel paese dove abito, a mezz’ora di macchina da Torino, non c’è ...[continua]
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