Non sembrano avere aspettative nei confronti del nostro paese, oltre a un po’ di assistenza, un po’ di tolleranza: non essere identificati, essere lasciati andare.
Perché gli eritrei fuggano non è difficile da scoprire. Fermo restando che il paese è chiuso, che non ci sono giornalisti indipendenti accreditati, che i siti in rete correnti sono colonizzati da gruppi etnici e politici, se ci si fida del "Guardian” bisogna prendere atto che si tratta di un paese povero, dittatoriale, repressivo. Il "Financial Times”, ancora più severo e ricco di particolari, paragona l’Eritrea alla Corea del Nord, che però è molto più armata. Il rapporto dello "Human Rights Watch” cita tra i flagelli che colpiscono i giovani la leva indefinita, per uomini e donne, che include i lavori obbligatori (nell’albergo che ospita i rari giornalisti esteri ammessi si può scoprire che i camerieri sono coscritti), l’ordine pubblico affidato a una milizia etnica tigrina (è il gruppo etnico maggioritario in Eritrea, presente, e dominante, anche in Etiopia), la violenza nei confronti dei dissidenti. Il partito al potere, guidato da Isaias Afewerki, è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, trasformazione del Fronte per la Liberazione del Popolo Eritreo, che condusse la guerra contro l’Etiopia fino all’indipendenza, raggiunta di fatto nel 1991 e dichiarata il 24 maggio 1993.
Eritrei a Torino
Un quarto di secolo fa le speranze di molti eritrei di Torino, le speranze nostre, italiani e stranieri, che lavoravamo con loro, erano molto diverse. Del gruppo di ricerca sulla condizione sociale e culturale degli stranieri più stabile nel tempo a cui ho partecipato, quello di Uguali e diversi, faceva parte un eritreo, A.G., studente al politecnico e poi laureato in ingegneria civile con una tesi sul ripristino della vecchia teleferica, caduta in disuso, costruita dagli italiani tra il ’35 e il ’37, lunga 75 chilometri, che collegava l’Asmara (2.300 metri sul livello del mare) al porto di Massaua. Del gruppo faceva parte anche Maria Viarengo, ricercatrice della Provincia di Torino, di padre italiano e madre oromò (gli italiani, che arrivavano dall’Eritrea, chiamavano gli oromò col termine eritreo galla, termine un po’ dispregiativo, come "ad Cuni” in torinese; la regione dell’Impero si chiamava Galla e Sidamo). Maria aveva studiato anche all’Asmara, prima di laurearsi all’Università di Torino. A.G. era uno dei rappresentanti del Fronte per la Liberazione del Popolo Eritreo, marxista-leninista. Forse per questo era l’unico immigrato ad aver avuto dalla Segreteria regionale della Cgil uno stanzino minuscolo nella vecchia sede della CdL in via Principe Amedeo.
Il Fronte combatteva per l’indipendenza contro l’Etiopia, peraltro retta dalla dittatura (m-l) di Mengistu Ailè Mariam. A.G. fu uno dei tramiti per organizzare le interviste a bottegai, ristoratori, lavoratrici, eritrei. Era eritrea Righibè, Colomba, nota allora a Torino (a chi si interessava di queste cose) per lo spettacolo di Alma Teatro che portava il suo nome. Ancora oggi lo sportello immigrati della Cgil deve sbrogliare le pratiche di vecchie signore eritree il cui nome era stato scritto con grafie diverse in diverse occasioni da carabinieri diversi negli anni Trenta.
Quando il Fronte vinse, si pose il problema di quale alfabeto dovesse usare il nuovo Stato. Poteva usare l’alfabeto latino, che però era anche l’alfabeto della potenza coloniale locale e di quella mondiale; l’alfabeto arabo, che andava meglio dal punto di vista fonetico, ma simboleggiava il prevalere della costa sulla montagna, degli arabi sui cushiti e i tigrini; o il ge’tz, l’alfabeto sillabico in cui sono scritti i testi copti, usato anche dai tigrini, e dall’Etiopia. A.G. era nato sull’altopiano, a cavallo del confine con l’Etiopia (suo padre credo fosse ...[continua]
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