È il terzo dei 59 punti dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvata il 23-25 settembre 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che tra i fini include esplicitamente Agire in fretta per combattere il mutamento climatico e le sue conseguenze. Se le deliberazioni dell’Assemblea generale avessero effetti diretti (se la Costituzione italiana avesse effetti diretti) non solo non ci sarebbe bisogno del Cop 21 a Bourget ma avremmo la piena occupazione e la pace. Ma l’Assemblea generale decide a maggioranza e non ha effetti sugli Stati che non condividono e non si impegnano, che spesso, quando si parla di giustizia, diritti, ecologia, sono gli Stati più potenti, che rappresentano, demograficamente, economicamente, militarmente il baricentro del mondo.
Siamo in un momento particolarmente, atrocemente, contraddittorio. Non c’è contrasto solo tra i principi e i fini dichiarati e le politiche realmente perseguite, ma anche tra i diversi tipi di fini e principi e tra gli interessi dei vari Stati, che sono in evidente conflitto tra loro. L’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica può voler dire chiusura di impianti e disoccupazione in alcune regioni e paesi; la caduta del prezzo delle materie prime può voler dire povertà per i paesi da cui provengono e favorisce l’aumento dei consumi energetici; la caduta del prezzo del petrolio può voler dire il tracollo dei paesi produttori deboli (Venezuela, Brasile, Angola, Nigeria) senza effetti gravi su quelli forti, come l’Arabia Saudita, che possono aspettare la ripresa e mantenere, e sfruttare, l’alleanza con le maggiori potenze mondiali. Gli Stati stessi si frantumano in interessi e comportamenti contrapposti tra agenzie in lotta, classi sociali in lotta, gruppi etnici in lotta. La più diretta e indubitabile funzione degli Stati, l’uso della forza, venne esercitata in modi impensabili qualche decennio fa. La fine degli eserciti nazionali, di leva, che avevano certo molte caratteristiche negative, tra cui la sacralizzazione della morte in battaglia, affida però la violenza a soldati professionisti, e a corpi speciali che rispondono solo nelle grandi linee ai presidenti e ai primi ministri debitamente eletti, a mercenari (contractors), a volte più numerosi dei militari regolari, di cui condividono i privilegi legali ed extralegali ma non la disciplina. Il rischio di morire sarà coperto da un’assicurazione, il diritto di uccidere dal rifiuto di accettare i tribunali locali e quelli internazionali; dalla pretesa di impunità dei potenti. Gli eserciti di leva coinvolgevano le popolazioni, richiedevano giustificazioni e almeno l’apparenza del rispetto delle regole. Certo, la storia delle guerre è anche la storia della violazione di quelle regole, ma i combattenti in qualche forma reagivano alle violazioni più esplicite, perché ne erano danneggiati o anche perché le trovavano eticamente, personalmente, ripugnanti. Oggi la scelta di fare il militare, pubblico o privato, rientra nella libertà di contratto, come la vendita degli organi, l’utero in affitto o il lavoro sottomarino ad alta profondità. La resistenza alla guerra in Vietnam, alle guerre irachene degli Stati Uniti, sono stati invece esempi di rivolte sociali dei combattenti e dei giovani contro i modi di combattere, mortali per loro stessi, crudeli e inumani per i nemici. Anche per questo gli eserciti di leva sono stati archiviati; l’accesso della stampa è stato vietato. Se si guarda al Medio oriente oggi, con tutti che sparano su tutti, gli Stati, anche quelli dominanti, schierati su più di un fronte, i gruppi etnici divisissimi, e il petrolio che fa da mezzo e fine degli eserciti, ci si rende conto che la volontà di dominio, di appropriarsi della ricchezza, hanno prevalso su ogni patto o coesione, non solo sulla democrazia, ma sul semplice ...[continua]
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