Una volta messi in giro per amore di brevità o per fretta o negligenza di chi li riporta, finiscono con l’essere serviti al pubblico nudi e crudi e, per l’illusione di esattezza che danno le cifre, per venire presi infine dall’uomo della strada come oro colato”.
Corrado Gini (citato in Alberto Baffigi, Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso, Banca d’Italia, 2015)
L’osservazione di Gini vale anche per chi cerca dati in controtendenza per invitare i lettori a non prendere le cifre per oro colato, a difendersi dall’uso pubblicitario di dati scelti apposta per negare l’evidenza. Non dobbiamo isolare dati singoli dal contesto. È il complesso dei dati che consente di trarre conclusioni sensate. Il Capitale nel XXI secolo di Piketty è un libro molto importante per il suo spessore (non solo della carta), perché mette insieme, per un secolo e più, dati sulla ricchezza, sui redditi, sulla rendita, sui salari e stipendi, sui vari tipi di tasse, in particolare di successione. Anche la misura della diseguaglianza ha bisogno di prendere in considerazione più di un aspetto. Maurizio Franzini, in Disuguaglianze inaccettabili e altrove, ha messo in luce che, a parità di coefficiente di Gini, possono esserci, e in Italia ci sono stati, mutamenti importanti, gravi socialmente, della distribuzione della ricchezza. La concentrazione in poche decine di mani di una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera degli esseri umani è un sintomo terribile, ma solo un sintomo, del prevalere della diseguaglianza. Il Pil, che considera solo il prodotto interno lordo dei singoli paesi, non solo non misura la diseguaglianza all’interno del singolo paese, ma crea un aggregato che non corrisponde più a una entità economicamente definita. Il Lussemburgo, il Liechtenstein, San Marino, sono paradisi fiscali il cui Pil è un aggregato di trasferimenti, non il valore di una produzione in senso proprio, come la definizione suggerisce. Il reddito medio, la ricchezza media, dal punto di vista della misura della diseguaglianza hanno gli stessi difetti del Pil. Semplicemente lo depurano, per così dire, dagli effetti di scala, dalla dimensione della popolazione. Usare la mediana può mettere in luce, più di quanto non faccia la media, cosa succede alla metà più povera della popolazione. Per gli Stati Uniti, anche in seguito a interventi polemici sul declino del ceto medio, si trova facilmente la serie storica delle mediane, per la Federazione e per i singoli Stati, che naturalmente oscilla, ma tendenzialmente cade nell’ultimo decennio. La serie delle mediane per classi di età ci conferma che tutto il mondo è paese: anche lì il reddito di chi ha più di 65 anni regge molto meglio di quello dei giovani. Le pensioni, per chi le ha, hanno retto; il reddito dei giovani è diminuito. In Italia l’attenzione dell’Istat e della Banca d’Italia è stata, giustamente, diretta soprattutto alle diseguaglianze regionali, che sono un problema storico, aggravato di recente dall’attivismo politico delle regioni ricche, dalla crisi, dal declino demografico, dalla corruzione, dalla criminalità. Sono diventate più importanti però anche le diseguaglianze per condizione sociale, per classe di età, per tipo di attività, come segnalato dal Rapporto Onu sullo Sviluppo Umano.
Diseguaglianze a confronto
Un quadro molto interessante delle diseguaglianze in Europa, che conferma le distorsioni che possono derivare dalla base statuale delle rilevazioni, è dato da una pubblicazione della Banca d’Italia: Principali risultati dell’household finance and consumption survey: l’Italia nel confronto internazionale, di Romina Gambacorta, Giuseppe Ilardi, Andrea Locatelli, Raffaella Pico e Cristiana Rampazzi. Il lavoro prende in considerazione per i vari paesi, oltre all’indice di Gini e alla media, la mediana, il 10°, 25°, 75°, 90° percentile del reddito e della ricchezza delle famiglie.
Posso solo riportare alcuni dei risultati che mi sembrano interessanti perché in contrasto con i commenti a stampa più diffusi e usati quasi solo da autori critici. "Ad esempio, la ricchezza media (delle famiglie) in Germania si attesta su 195.200 euro, un livello inferiore a quello di Spagna, Italia e Francia (rispettivamente 291.400, 275.200 e 233.400)”. Determinante è l ...[continua]
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