Accostare e confrontare questi due poeti è come trasferirsi di colpo in due dimensioni incommensurabili, reciprocamente aliene della poesia italiana. Rèbora esprime e vive come nessun altro la violenza dei conflitti di primo Novecento che culminano nella Grande guerra. Cardarelli cerca subito un aldiqua e un aldilà del conflitto, ricompone un’unità armonica fra tempi e spazi, vita e coscienza, esperienza e stile. Quando li si legge non si può che pensare alla diversità non solo culturale e morale, ma perfino percettiva fra l’Italia lombarda di Rèbora e l’Italia centrale di Cardarelli. Da un lato l’Italia che ha prodotto Caravaggio e Manzoni, dall’altro l’Italia di Raffaello e di Leopardi, anche se entrambe ridotte a misure scorciate, laterali, marginali. La storia culturale italiana è ormai fuori rispetto all’Europa, in posizione secondaria e derivata. La stessa poesia italiana vive relegata ai margini e accetta onestamente la perdita della sua influenza pubblica, il crepuscolo della sua presenza nella dialettica culturale e politica. Acquistando autenticità e per essere fedeli a se stessi, i nostri poeti abbassano la voce, circoscrivono e focalizzano la propria situazione, si eclissano, evadono, si nascondono, tacciono, rinunciano all’ambizione di costruire l’edificio di una propria "opera”.
L’esperienza e l’ideologia futurista restano un’esplosione spettacolare, inconsulta e velleitaria. L’esperienza "crepuscolare” segna invece un punto di non ritorno: il congedo, la dissociazione fra poesia e storia. Fino ai decenni 1945-’65, fra senso della sconfitta e nuovo impegno civile e politico, la poesia italiana è una poesia che si è arresa all’impotenza comunicativa e all’irrilevanza sociale. Prima di Montale, che comincia a essere centrale negli anni Trenta, con l’eccezione di Saba, che riemerge nel 1945 come la maggiore alternativa antiermetica e antinovecentista, è proprio fra il drammatico espressionismo di Rèbora e il neoclassicismo contemplativo di Cardarelli che si percepisce meglio il passaggio di situazione. Nessuno dei due è del tutto catalogabile in termini di "corrente” o di "scuola”. Rèbora non ha niente a che fare né con i crepuscolari né con i futuristi, Cardarelli è sostanzialmente estraneo all’ermetismo, lo costeggia in parallelo ma a distanza, scavalca la tradizione modernista del Simbolismo e punta direttamente a Leopardi, dandone un’interpretazione umanisticamente riduttiva, in cui lo stile prevale sulla filosofia, l’attenzione alla forma assorbe la coscienza morale e letterariamente ne diffida. Mentre in Rèbora è la coscienza morale a diffidare dello stile, lo maltratta e lo sottopone a tensioni inusitate che forzano e stravolgono sia il lessico che i nessi sintattici e metrici in nome di verità dirompenti che entrano nel testo con una violenza e un’urgenza selvagge.
In termini di storia culturale, Rèbora esemplifica come nessun altro il moralismo e l’intellettualismo politico degli anni Dieci caratterizzati dalla "Voce” (1908-’16) e traumaticamente segnati dalla guerra. Cardarelli è il più tipico rappresentante del "richiamo all’ordine” degli anni Venti e di una rivista come "La Ronda” (1919-’22). Due climi opposti come il buio e la luce, il freddo e il tepore, l’inverno e l’estate. Anche solo in termini appunto "climatici”, di figure tematiche e di tono, il contrasto non potrebbe essere più lampante. Ecco Rèbora:
O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bùssano i timpani cupi,
strìsciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragio ...[continua]
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