10 aprile 1987, Belet Weyne
Carissima Maria Teresa, tutto sembra così infinitamente lento in questo mondo, a chi importa? Si vive di parole, di promesse non mantenute, si vive alla giornata, come tu ben sai. Gli orizzonti sono ristrettissimi, al cuore non si permette di dilatarsi sul mondo. L’ignoranza soffoca, opprime, uccide l’uomo. Dovrei andare a Mogadiscio. Al più presto. Tra l’altro sono guarita perfettamente, ma non mi decido a lasciare gli ammalati. Eppure so che ho dei doveri nei confronti di me stessa, della mia famiglia, di Wajir, di voi, dei miei amici... e mi sento brutta e colpevole. Eppure non mi distacco. E dire che il rapporto con loro è durissimo e a me va bene solo perché li amo, tu sai bene: ignoranti, orgogliosissimi, presuntuosi, testardi, permalosissimi, disperati a causa della malattia che si ritrovano e che rifiutano con tutte le loro forze, ma soprattutto malati ignorantissimi, superstiziosi, "indemoniati”, qui tutti sono passati e passano attraverso il minghis, che è la nostra hayana [possessione demoniaca, così chiamata a Wajir] e rovinati da decenni di medici che li hanno ingannati e lusingati prescrivendo un milione di differenti farmaci italiani (praticamente ciò che c’è stato e c’è anche da noi).
26 aprile 1987, Mogadiscio
Carissima Maria Teresa il tempo vola bruciato... ormai sono lunghi mesi che vivo fuori del tempo... non ho più notizie di nulla eccetto che di Dio e dei malati. Tutto il resto è una giostra. Io sono sulla giostra e al tempo stesso fuori della giostra: spettatrice quasi intaccata di un vortice, di una confusione, di una non chiarezza, dì un non bello, di un non puro, di un non onesto, di un non vero che pare ineluttabilmente debbano essere l’uomo e il mondo. Ma non sono turbata, perché tutto rimetto in Dio, perché vivo nella certezza della sua realtà di amore... sì vivo di fede: so che è così, anche se tutto o quasi tutto, tutti o quasi tutti sembrano testimoniare il contrario. Io sono una ben povera cosa, ma sicuramente cerco di servire e spontaneamente, per un’esigenza interiore che io non controllo e su cui non mi fermo a pensare, cerco la verità, ne ho una sete insaziabile, per cui mi ritrovo di continuo a riconoscere e verificare errori che ho fatto e sforzarmi di non farne più.
Sono dalle suore, appena di ritorno da una sosta lunga lunga in banca per ritirare due assegni: la disorganizzazione è incredibile; è questo un mondo sicuramente speciale e diverso dal resto del mondo. È un popolo incredibile, ma sicuramente più incredibile è che io voglia amarlo, servirlo, rimanere qui fino alla morte, se Dio concede.
27 aprile, non riesco a partire. È un mondo lento che vive esclusivamente il presente. Io accetto ma anche perché sono anch’io tanto manchevole, tanto debole, tanta povera cosa senza forza di volontà... e questo non è bello. A sprazzi cerco giustificazioni: il corpo pesante, i pidocchi che mi ossessionano (sic!) in testa dal 12 marzo, il clima terribile umidissimo, qui a Mogadiscio in questi giorni abbiamo patito tanto... il culmine lo raggiungevo la sera, sfinita, incapace di vita, una cosa da cui allontanare lo sguardo, da non voler vedere, non più una creatura di Dio. Ma poi non cerco più nulla. So la mia realtà e non mi piaccio e ne vivo profondamente la tristezza.
Ho con me il Santissimo. Il vescovo ha voluto mandarmelo. Io non l’avevo chiesto. Non ho ancora un luogo sicuro in cui tenerlo. Debbo portarlo addosso. Lui mi ha fatto sapere che va bene tutto, che io so come fare: l’importante è che il Signore sia tornato a Belet Weyne dopo tanti anni.
10 aprile 1989, Belet Weyne
Carissima Maria Teresa, sono di nuovo al compound dove abbiamo avuto la consueta riunione serale del venerdì per i problemi che riguardano un po’ tutti o comunque il lavoro specifico di ciascuno di noi che coinvolge anche gli altri; qui mi vorrebbero ad abitare al compound. Mi hanno chiesto formalmente di essere almeno sempre loro ospite ai pasti. Io sono un po’ stupita del calore della loro insistenza, perché ero convinta di pesare in molti sensi e avrei sempre e solt ...[continua]
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