sono stata a una conferenza dove un gruppo di giornalisti dall’Asia dell’Est cercavano di capire in che modo si potesse affrontare, e fermare, il diffondersi dell’odio nei media asiatici -ovvero, come affrontare i troll, gli editorialisti populisti, e varie altre espressioni di intolleranza. Naturalmente, in questo periodo, dopo il modo in cui l’odio ha contribuito al voto britannico sul lasciare l’Unione Europea, tutto appare un po’ più fosco, ma la conversazione a cui ho partecipato una volta di più mi ha fatto considerare quanto avanzata sia l’unione fra europei, e quanto, invece, la trattiamo come uno straccio senza valore.
Ma questo è un altro discorso. Io ero stata invitata a partecipare in quanto "osservatrice sia esterna che interna”, e mi è stato dunque chiesto di dare opinioni generali sul giornalismo in Cina, a Hong Kong, a Taiwan, in Corea del Sud e in Giappone: mi sentivo un po’ una tuttologa, ma i miei interlocutori non me l’hanno fatto pesare. Ho parlato in particolare con Wanfg Feng, un giornalista che adesso dirige la versione cinese del "Financial Times”, che in realtà è una versione online del giornale inglese che ha per lo più articoli originali, e qualche articolo tradotto. All’inizio, ci siamo un po’ scontrati: io parlavo dei giornali che alimentano l’odio e l’incomprensione, in particolare fra Hong Kong e la Cina, dicendo che la stampa ufficiale cinese non fa che insultare le aspirazioni democratiche di Hong Kong, ridicolizza l’ex-Colonia, istiga il disprezzo nei suoi confronti, fa attacchi ad nomine nei confronti degli attivisti pro-democrazia e si comporta in modo irresponsabile, dal momento che in Cina non è possibile fornire una visione diversa delle cose, dato che la stampa è controllata.
Ho fatto l’esempio di come il tabloid nazionalista "Global Times” sia riuscito da solo a far cancellare alla casa di cosmetici Lancome un concerto promozionale di Denise Ho, una cantante e attrice di Hong Kong apertamente pro-democrazia, minacciando un boicottaggio nazionale dei prodotti Lancome (Lancome ha obbedito, e ora è boicottata… solo a Hong Kong). O di come la televisione cinese si rende strumento di repressione ed ingiustizie e contribuisce a sovvertire la legge trasmettendo "confessioni” televisive di dissidenti prima che vi sia stato qualunque tipo di processo. Mezzi di comunicazione che dunque sono così asserviti al potere da perdere, secondo me, il diritto ad essere chiamati tali. Wang Feng all’inizio c’era rimasto male, dicendo "è pigro guardare solo al Global Times o alla Cctv (la televisione centrale)! Bisogna guardare anche a quello che facciamo noi, a quello che fanno i giornalisti che rischiano ad ogni articolo, a quelli che malgrado i pericoli si concretizzino regolarmente in arresti o minacce continuano a scrivere per pubblicazioni di Hong Kong, o per pubblicazioni che cercano di svincolarsi, anche solo per un giorno, dai diktat della censura…! Abbiamo bisogno del vostro sostegno e del vostro aiuto, ma se non ci guardate nemmeno, come facciamo a sopravvivere?”.
Quando gli ho detto che ero d’accordo con lui, ma che il mio discorso era sull’influenza di certi media nei confronti dell’odio che si diffonde, era anche lui d’accordo con me: chi promuove comprensione fra cinesi e hongkonghesi, tibetani o uiguri e cinesi, presto o tardi si ritrova limitato, e deve scrivere propaganda. Anche se non è quello che i giornalisti vorrebbero scrivere, nemmeno in Cina.
Nel 1989, nel corso delle manifestazioni di Tiananmen, una delle immagini più forti che mi siano rimaste in mente è stata quella di centinaia di giornalisti che sfilavano per le strade, andando verso la piazza, con striscioni che dicevano: "Non vogliamo più scrivere menzogne!” e chiedevano la libertà di stampa. Dopo giugno, ovviamente, quelli che non sono stati arrestati hanno continuato a scrivere menzogne, come prima e più di prima, ma almeno ai miei occhi la loro sofferenza nel farlo, il loro tentativo di spingere un po’ per poter andare al di là dei limiti del consentito erano dati di fatto.
Insomma, alla fine Wang Feng e io eravamo d’accordo su tutto -come succede a volte quando ci si scorna un po’ troppo precipitosamente con qualcuno- e sul fatto che, certo, i giornalisti coreani o giapponesi che non sono ancora capaci di affrontare la Corea del Nord in modo aperto, o il passato militare imperialista della loro nazione, non navigano nel nulla propagandistico, ma possono contare su dei contra ...[continua]
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