In Italia, Giovanni Macchia, riassumendo nel 1947, nel suo libro Studi, le caratteristiche della nuova poesia italiana, parlò degli ermetici come di una generazione "senza maestri” per la sua estraneità a Carducci, Pascoli, D’Annunzio. I maestri, per la prima volta nella storia della nostra poesia, erano tutti o soprattutto stranieri, il solo riferimento italiano possibile sembrò Leopardi. Si trattava, scrisse Macchia, di una "decadenza della Ragione” e di "senso metafisico della ricerca poetica”. Ungaretti aveva detto che la poesia moderna "si propone di mettere in contatto ciò che è più distante” bruciando le mediazioni razionali e discorsive. Luciano Anceschi, nella sua introduzione all’antologia Lirici del Novecento (1961), affermò ambiguamente quanto segue: "Gozzano; e Soffici e Papini con i loro fermenti; e Palazzeschi e Campana; Cardarelli, con il suo magistero; Ungaretti e Montale: ecco i diversi momenti fondamentali della storia della parola poetica contemporanea, come storia delle forme e, nello stesso tempo, come storia dello svolgimento di un’ansia metafisica (o non metafisica) che è la stessa ansia metafisica (o non metafisica) del secolo”.
Curioso modo di presentare i fatti e di cancellare i problemi, trovando il denominatore comune in un’ansia molto generica che letterariamente può dare gli esiti più inconciliabili: quelli per esempio di Gozzano e di Ungaretti, o di Palazzeschi e di Cardarelli. Ma quando Anceschi scrive queste righe siamo già nel 1961 e la centralità dell’ermetismo è tramontata da almeno quindici anni.
Vediamo ora, invece, qualche precoce anomalia, non in poeti che avevano pubblicato nel primo ventennio del secolo, ma in autori coetanei degli ermetici, come per esempio Sandro Penna (nato nel 1906), Cesare Pavese (nato nel 1908) e Attilio Bertolucci (nato nel 1911), che saranno letti come maestri alternativi e "antinovecentisti” solo dagli anni Quaranta e Cinquanta in poi. Per avere subito il senso del loro non-ermetismo o antiermetismo basterà leggere, di ognuno, almeno un testo esemplare.
Penna pubblicò abbastanza tardivamente, nel 1939 il suo primo libro, Poesie, che contiene una delle sue composizioni più note e celebrate:
La vita... è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Due semplici strofe, dieci endecasillabi senza rime che ritmicamente sollevano appena un paio di notazioni diaristiche, sensazioni e impressioni, la constatazione di una casuale presenza umana, il mare visto dal finestrino di un treno. "Di tutti i poeti del Novecento -ha scritto Cesare Garboli- Penna è il solo che non adoperi simboli. È tutto in luce, tutto lì, nelle parole che pronuncia, infimi strumenti e materiali di artigiano che bastano a spiazzare, di colpo, il complicato e faticoso edificio a chiave costruito, come un immenso giocattolo, dalla poesia moderna”.
L’immenso giocattolo di cui parla Garboli è appunto la tradizione che Mario Luzi ricostruirà nella sua antologia del 1959 L’idea simbolista, una tradizione senza la quale l’ermetismo sarebbe stato inconcepibile, anzi non sarebbe nato. È grazie e ...[continua]
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