è paradossale che in un paese che tutti, giustamente, dichiarano fermo, con l’ascensore sociale rotto, con un basso livello di istruzione secondaria e terziaria, saldamente aggrappato allo jus sanguinis, cioè alla cittadinanza ereditaria, si possa fondare un’analisi sociale su raggruppamenti artificiali. Siamo diventati un paese di rentier, ricchi, medi e poveri, almeno per la casa e la pensione. Non tassiamo le case, non tassiamo eredità che in Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti sono tassate al 40%, ma pensiamo (l’Istat pensa) che si possa analizzare l’Italia senza tener conto dei vincoli e dei lasciti tra generazioni, non sempre censite nella stessa famiglia. Si dice che la classe operaia sia finita perché sono diminuite le grandi fabbriche, come se le grandi fabbriche fossero state numerosissime quando la classe operaia è stata costruita. Che le classi non ci sono più perché oggi si lavora a giornata, come se invece un secolo fa ci fossero stati i contratti a vita; come se tutti i lavoratori italiani diventati maggiorenni in pieno boom, incluso chi scrive, avessero avuto contratti a vita e non avessero, invece, cambiato più lavori, radicalmente diversi, dato vita alla maggiore migrazione del secolo, cambiato settore produttivo, trovato per la prima volta un lavoro che fosse un lavoro, degno della Costituzione della Repubblica.
Costruzione e dissoluzione
E.P.Thompson ha intitolato il suo studio sulle origini della classe operaia inglese The Making -cioè la costruzione- of the English Working Class per sottolineare che "è lo studio di un processo attivo che dipende tanto da azioni consapevoli quanto da condizioni date”. Anche la storia della classe operaia italiana è storia non solo di rapporti di produzione, di organizzazione del lavoro, di settori produttivi, di aziende grandi, medie e piccole ma anche di attività condivise, di leghe, di sindacati, di partiti politici, di ideali, di idee. A formare ciò che è stata la classe operaia italiana non sono stati solo l’industria, la meccanizzazione dell’agricoltura e il boom.
Gli operai, più in generale i lavoratori dipendenti italiani, gli uomini e le donne che hanno costituito la classe operaia di questo paese, non hanno solo lavorato ma hanno manifestato, si sono ribellati, hanno combattuto per la libertà durante la Resistenza, si sono schierati politicamente, anche in partiti diversi -socialista, comunista e cattolico- si sono associati e hanno lottato per i diritti, si sono battuti contro le lavorazioni nocive e pericolose, per le pensioni, per lo Stato sociale.
Non si possono includere nella classe lavoratrice i partiti in cui hanno militato i lavoratori; forse neppure i sindacati. Ma senza idee e organizzazione non ci sarebbe stata la classe operaia che abbiamo conosciuto. Ci sono dirigenti che vengono in mente subito come soci fondatori: pensate a Peppino Di Vittorio.
Anche la dissoluzione di una classe non è solo una scomparsa fisica, un trasferimento altrove, o la fine di definiti rapporti di produzione. è anche un mutamento culturale, la costruzione di una scomparsa. è il trionfo di idee avverse all’esistenza stessa della classe lavoratrice, il risultato di scelte organizzative dei sindacati dei lavoratori, del mutamento, se non del rovesciamento, delle idee e della politica dei partiti di rifermento. è la convinzione, non importa se del tutto autonoma o anche indotta, di quelli che lavorano, di non essere più il fondamento ...[continua]
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