Cari amici,
secondo un’analisi recente della Banca mondiale, l’economia del Marocco stenta a decollare. Il potere d’acquisto dei marocchini è fermo a quello che i francesi avevano negli anni Cinquanta, con una crescita rallentata del Pil per abitante e alcuni drammatici indicatori sociali, come una mortalità infantile a 24 decessi ogni mille nascite. Certamente la grave crisi del sistema scolastico e della sanità, per cui anche chi beneficia di bilanci familiari esigui deve rivolgersi ai privati, è concausa di questa situazione. E questo nonostante il Marocco abbia uno dei migliori tassi di investimento del mondo e la fiducia degli imprenditori sia altissima. Investimenti che però puntano più all’accumulo dei capitali che alla produttività e al lavoro: il rapporto tra la popolazione attiva occupata e quella in età lavorativa si è addirittura ridotto nei primi quindici anni del secondo millennio, dal 48% al 43%… Un dato che contrasta con altri Paesi emergenti.
A questo grido d’allarme della Banca mondiale s’è unito il panico di queste ultime settimane nell’attesa del nuovo regime di cambio flessibile per la moneta locale, che era rimasta sotto protezione fino ad oggi: nel timore di una grossa svalutazione del dirham le aziende che devono importare prodotti dall’estero si sono viste costrette ad acquistare maggiori quantitativi per evitare un cambio sfavorevole. La Banca centrale ha reagito con stizza di fronte alle presunte speculazioni e l’annuncio della liberalizzazione del regime del cambio valutario è stato rimandato sine die.
Il dirham è nato nel 1959 e fu da subito legato al franco francese. Successivamente la moneta marocchina si legò a un paniere di monete europee e al dollaro, recentemente vedeva un legame al 60% con l’euro e al 40% con il dollaro. Slegato da questo paniere di riferimento, dovrebbe d’ora in poi fluttuare secondo il regime di mercato, della domanda e dell’offerta, ma pur sempre con un controllo da parte della banca centrale per limitare, pare, la fluttuazione a un 5% (2,5% in più o in meno).
Quello che oggi preoccupa maggiormente in Marocco è comunque la stabilità politica, fondamentale per la riuscita economica. Rimane al centro dell’attenzione Hirak, il movimento del Rif. Se da un lato i leader del movimento, insieme ad alcuni giornalisti, restano in carcere (pur aumentando la pressione di chi vorrebbe la loro scarcerazione come segnale importante di pacificazione), dall’altro lato c’è stato un notevole sforzo nello smorzare i toni; addirittura il governo ha parzialmente ritirato le forze dell’ordine dai luoghi più presidiati della rivolta, ad Al Hoceima e dintorni. Lo stesso capo del governo ha voluto sottolineare come sia stato sbagliato accusare di separatismo il movimento, che è invece una protesta popolare che chiede maggiore giustizia ed equità (anche se qualche indipendentista rifi partecipa e sostiene Hirak).
I politici sono in imbarazzo; il re ha lasciato che fosse Macron, in visita in Marocco, a parlare della preoccupazione per la situazione sociale ed economica del Rif; lui non può intervenire apertamente per non andare contro i dettati della nuova costituzione e sminuire così il ruolo del governo e delle altre istituzioni pubbliche. (E tuttavia viene interpellato da più parti, come soluzione che potrebbe sbloccare la situazione di impasse, per esempio con un atto di clemenza verso i leader incarcerati). La richiesta reale che obbliga al lavoro senza pausa estiva i ministri incaricati delle questioni socio-economiche del Rif, così come l’aver comunque espresso (tramite l’alleato francese) le sue preoccupazioni per la regione interessata dalla protesta, possono essere considerati in ogni caso pesanti interventi da parte della monarchia, l’istituzione cui tutti guardano con rispetto e attesa.
Tanti si aspettano che venga presto varato un atto di scarcerazione, ma al momento si attende ancora il processo per Nasser Zefzafi, il leader principale della rivolta, mentre alcuni rappresentanti del movimento sono già stati condannati a pene piuttosto pesanti. La grazia potrebbe arrivare dopo altre condanne? La situazione resta sospesa e da più parti si chiede un intervento a livello simbolico, perché la regione del Rif ha patito tanto, dall’indipendenza in poi; andrebbe anche ripreso il processo di riconciliazione iniziato per volere di Mohammed VI per affrontare gli abusi della repressione dei cosiddetti Anni di piombo.
Forse, nell’evidenza di gravi abusi di potere nella regione, che vive oggi questo profondo senso di esclusione, sarebbe opportuno che lo stato chiedesse scusa al Rif e intervenisse con la dovuta celerità per attivare quei progetti di sviluppo già lanciati negli anni scorsi e rimasti però lettera morta, probabilmente anche a causa di un sistema politico e amministrativo profondamente corrotto.
Se anche l’opinione pubblica si attiva, le richieste di mediatori come Mohamed Nech-Nech, portavoce di Iniziativa civile per il Rif, potrebbero essere accolte, soprattutto a partire da un approccio giuridico più sereno e meno repressivo: i rappresentanti di Hirak sono messi di fronte (e alcuni già condannati) a capi d’accusa di eccezionale gravità, del tutto sproporzionati rispetto alle loro colpe.
Le parole e i fatti volti alla pacificazione e alla reale soluzione dovrebbero portare con coerenza a sviluppi rapidi della crisi del Rif. La politica nazionale e locale resta però insoddisfacente, e forse è stata simbolica la risata generale dell’assemblea di fronte alla risposta di un ministro che davanti alla denuncia di violazione di domicili con sfondamento di porte per l’arresto di tanti rifi in questi mesi ha semplicemente detto: "Le porte sono state riparate”.
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