Pasolini, in questo senso, è stato più una presenza critica che l’autore di un’opera poetica. Le sue ragioni, anche quando le scrive in versi, sono sempre in primo piano. Ideologizza se stesso e le sue passioni e inventando, elaborando la categoria di "sperimentalismo” si autogiustifica a priori. Se scrivere per lui è sperimentare, allora la provvisorietà, l’incompiutezza, il "semilavorato” fanno parte del programma: non sono più difetti ma caratteristiche di uno stile che rifiuta la perfezione in nome della fedeltà alla "vita reale” del mondo e dell’autore.
D’altra parte non si sa bene se preferire la poesia di Pasolini più costruita o invece quella più improvvisata. È vero che nella prima c’è più consapevolezza formale, ma c’è spesso anche più retorica. Quando la costruzione è traballante e quasi assente, possono invece emergere frammenti di una potenza e autenticità espressiva in cui la disperazione di chi scrive sembra portare la letteratura al di là o al di qua di sé stessa. Così il lettore sente di assistere a un teatro di autodistruzione dell’autore e delle sue ambizioni. A questo punto Pasolini è personaggio, attore e regista di una finale performance pubblica e politica che tende a coinvolgere non solo i lettori di letteratura ma un’intera classe dirigente e un’intera società. In nessun altro autore di poesia, la combinazione, la coesistenza, la sovrapposizione del critico e del poeta aveva prodotto effetti così dirompenti. Pasolini diventa più che un poeta quando è meno ambizioso come poeta. Un grande scrittore irrealizzato o fallito che senza aspettarsi più niente dalla società e dal pubblico mette in scena la tragedia di sé stesso come uomo. Lontanissimo da teorizzazioni estetiche sull’"opera aperta” come quella di Umberto Eco, in realtà quella di Pasolini è l’opera letteraria e poetica più aperta dell’intero Novecento italiano.
Può sembrare un paradosso, ma un poeta che nella sua maturità è così inclusivo, realistico, raziocinante, polemico e saggistico, esordì ventenne come lirico puro in dialetto friulano: pur essendo il friulano, come ha precisato Gianfranco Contini, più una "lingua minore” che un dialetto. Inoltre Pasolini usa questa lingua-dialetto non come strumento di verismo provinciale, ma come "lingua vergine”, lingua non contaminata dall’uso comunicativo, avendo in mente poeti simbolisti e tardosimbolisti di selettiva purezza, come per esempio lo spagnolo Juan Ramòn Iménez. Lo si vede chiaramente in questa "Dedica” che apre le Poesie a Casarsa (1941 - 43):
Fontana di aga dal me paìs.
A no è aga pì frès-cia che tal me paìs.
Fontana di rustic amor.
(Fontana d’acqua del mio paese. // Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. // Fontana di rustico amore.)
Purezza e rarefazione: tre versi che sono tre minimali strofe. Il massimo di lirismo ottenuto con la semplice nominazione, nel primo verso. Con la lode di un superlativo, nel secondo. Con la ripetizione del nome, infine, a cui si aggiunge la qualità evocativa di un amore naturale e vero.
È da questo esordio assolutamente e limpidamente lirico, in cui si illumina un mondo fiabesco fuori dalla storia, che Pasolini ricava l’idea di sé stesso come "poeta per nascita”, poeta sempre e comunque: tanto che, sia il suo cinema, quanto il suo giornalismo, potranno in seguito autodefinirsi cinema e giornalismo "di poesia”. Il critico e l’ideologo nasceranno in lui più tardi, per vocazione pedagogica e per necessità autoesplicativa, autodifensiva, polemica. Respinto e processato dalla società in quanto omosessuale, diffamato e dileggiato dal più ottuso "perbenismo” di destra e di sinistra, Pasolini si trasformerà in un implacabile, agguerrito dialettico nel giudicare e processare moralmente e politicamente chi lo giudica e vorrebbe continuare a processarlo. In lui il poeta si espande e si arma come critico della società, della borghesia, della cultura, delle classi dirigenti italiane, prima, negli anni cinqua ...[continua]
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