Niente scaletta
L’idea di una rivista di interviste non è nostra ma di Andy Warhol. Durante un soggiorno a New York con Fausto, appassionato da sempre di fotografia (io con qualche attitudine alla scrittura avendo al mio attivo la pubblicazione di un centinaio di volantini) ci imbattiamo in "Interview” e ci diciamo che poteva essere un’idea. Con gli altri amici, infatti, avevamo già cominciato a parlare di far di nuovo qualcosa e l’ipotesi "rivista” era stata azzardata.
"Far parlare gli altri” ci avrebbe risolto il problema principale di cui parla Massimo in un’intervista di allora che riproduciamo qui accanto: non sapevamo far nulla, men che meno "parlare noi”. Così prese corpo l’idea del mensile di interviste.
Un ulteriore problema era l’"ignoranza accumulata” e quindi la non padronanza degli argomenti: come mettere insieme una scaletta? Allora niente scaletta, si va "a far parlare” e basta: di persona e mai al telefono o per iscritto, col registratore e mai con penna e bloc-notes, mai, possibilmente, col tempo contingentato, infine senza aver paura dei silenzi. Senza saperlo stavamo applicando al giornalismo la tecnica di intervista della storia orale, dove il problema fondamentale è "il clima” che si crea, dove ciò che conta è la fiducia, il rispetto, la curiosità, la "simpatia”; a quel punto torna buona anche quell’ignoranza dell’intervistatore che mette a suo agio l’interlocutore. L’intervistatore apparentemente tende a scomparire e l’intervista a diventare una specie di monologo.
Le domande passano in secondo piano, servono a facilitare, a indurre, ad assecondare il monologare oppure, in fase di editing, a "dare respiro” al lettore. Infatti a volte sono inventate "dopo”.
Questo modo di fare le interviste ha funzionato. Lisa Foa ci disse: "Io non so come fate, ma riuscite a far vuotare il sacco”. Vittorio Foa ha scritto che il nostro modo di "darsi tempi lunghi” è proprio un’altra cosa rispetto all’intervista tradizionale perché in quel tempo lungo, fatto anche di silenzi, l’intervistato "rimugina”, ripensa, in un certo senso "lavora”. Ricordiamo con grande affetto quando Vittorio Foa negli ultimi anni della sua vita, durante l’intervista, si fermava a lungo chinando la testa con gli occhi chiusi e io e Massimo imbarazzati ci interrogavamo con lo sguardo, ma poi lui, rialzando la testa, riprendeva il discorso per aggiungere qualcos’altro, per spiegarlo meglio, per aggiungere un aneddoto illuminante.
L’editing
Un problema delicato è quello dell’editing. Dopo aver registrato per un’ora e mezzo e aver sbobinato ci si ritrova con un numero di battute doppio, triplo o quadruplo della misura massima per la pubblicazione. è necessario un lavoro molto delicato di taglia e cuci, che può anche provocare, pur rispettando la lettera, la manipolazione dell’intervista. Mentre durante l’intervista si lascia all’intervistato la possibilità di dire tutto quello che vuole, nell’editing è l’intervistatore che può fare quel che vuole. Allora, riascoltando anche il sonoro, bisogna rimettersi nei panni dell’intervistato come se fosse lui a dover mettere in bella la sua intervista.
Sdraiati
Il problema, questo sì grave, del nostro modo di fare interviste è quello dell’intervistatore "sdraiato”, servile cioè. Proprio l’amica del Manifesto, Manuela Cartosio, ce lo rimproverò. Noi lo rivendicammo: "Sì, non combattiamo mai”. Ovviamente capiamo l’importanza, in certi casi, dell’intervista combattuta, ma a noi non piace e, comunque, non saremmo capaci di farla. Forse anche qui un difetto si è tramutato in un pregio però il problema resta. Raccontiamo sempre un grave incidente che ci capitò. C’era venuta l’idea di prendere frasi famose, problematiche, e chiedere a un esperto di commentarle. Il primo errore fu di sceglierne una più infame che problematica: la frase di Heidegger che paragona la shoah alla meccanizzazione dell’agricoltura. Ma quel che è peggio è che per commentarla, su consiglio di un amico, andammo da un professore che, l’abbiamo capito dopo, era la vestale italiana, e della Bocconi, di Heidegger. Fu Carlo Ginzburg, la cui stima tenevamo in grande considerazione, a farci una sfuriata indimenticabile. Ci eravamo "sdraiati” di fronte a quella frase odiosa.
Insomma, nel nostro modo il rischio dell’agiografia è sempre presente. Noi però a combattere non abbiamo imparato e continuiamo a non farlo. Stiamo molto più attenti alla scelta dell’intervistato, quello sì. Non abbiamo mai intervistato dei politici, perché, e lo rispettiamo, non possono "vuotare il sacco”, ed evitiamo accuratamente ogni tipo di integralista.
L’intervista "non-directive”
Per concludere: siamo stati ultimamente a un seminario su "Una città” organizzato all’Università di Venezia. Abbiamo raccontato un po’ queste cose. Un professore, che conosciamo e ci stima, è intervenuto dicendo, in pratica, che non avevamo inventato nulla, che la nostra intervista si chiama intervista "non-directive” e ha citato un bel saggio di un tedesco dedicato a questo (poi abbiamo pure scoperto che esiste un’intera bibliografia in materia). Ci siamo fatti dare i dati per procurarcelo e capire finalmente cosa facciamo da 27 anni.
Gianni Saporetti