Considero un grande onore che il periodico "Una Città”, pubblicato a Forlì, e di cui ho sempre apprezzato l’indipendenza, mi chieda di scrivere la prefazione a questa doppia storia della Palestina e di Israele, a uso degli studenti dei due popoli.
Il fatto essenziale e nuovo, assolutamente nuovo, è l’esistenza stessa di questo testo. Il discorso comune è per l’istante impossibile e lo resterà per molto tempo. Ciononostante, i professori che hanno redatto queste pagine l’hanno fatto nel rispetto reciproco dell’altro. Nel 1967, il numero speciale di Temps modernes che opponeva vedute israeliane e vedute arabe del conflitto era il risultato di una coesistenza puramente passiva. Soltanto Sartre e Lanzmann avevano incontrato entrambe le parti. Due intellettuali ebrei francesi, Robert Misrahi e Maxime Rodinson, sperimentavano punti di vista perfettamente opposti, e solo Rodinson osava parlare di pace e di riconoscimento reciproco. Tutto ciò crollò nel fragore della guerra dei Sei Giorni.
In che misura sono qualificato per presentare questo singolare documento? Appartengo a una famiglia ebrea di cui una parte è stata sterminata dai nazisti. Non sono mai stato sionista e dal giugno 1967 sostengo la coesistenza di due Stati, uno arabo, l’altro ebreo, sulla terra che fu e che resta per gli uni la Palestina, per gli altri Eretz Israel. Non sono sicuro oggi che questo sogno si realizzerà. La politica di colonizzazione perseguita instancabilmente da tutti i governi israeliani anche dopo Oslo non facilita la pace. Peraltro la rivendicazione di tutta la Palestina da parte degli estremisti dell’altro campo porta al governo Sharon il migliore aiuto possibile. Non si tratta per me di trattare alla stessa stregua i due avversari. È innegabile che il popolo arabo sia vittima di un’impresa coloniale. Sono nella condizione migliore per sapere che anche gli Ebrei sono vittime, ma non sono stati, nel passato, principalmente vittime dei Palestinesi.
Ciononostante, è veramente straordinario aver tentato di portare a compimento questa esperienza. Che questo testo sia dedicato alla memoria di un maestro palestinese, Yousuf Tumaizi, morto prematuramente il 19 agosto 2002, è magnifico.
Gli autori hanno scelto tre momenti di questa lunga storia: la dichiarazione Balfour che, nel novembre 1917, ha dato inizio alla realizzazione dell’utopia sionista, che si concretizza poco a poco fino al Libro bianco del 1939 che, in una data drammatica, segna una battuta d’arresto; la guerra del 1948, che è per gli uni una guerra di Indipendenza e, per gli altri, l’anno della Catastrofe; terzo momento infine, l’Intifada che, dal 9 dicembre 1987, ha scosso i Territori occupati e comportato gli accordi precari di Oslo.
C’è in ogni storia nazionale qualcosa di irrimediabilmente soggettivo e sarebbe infantile stupirsene e ancora di più indignarsene. Per quale ragione il vissuto dei due popoli non sarebbe incompatibile? Per i Palestinesi, questa storia è quella di una conquista di cui sono stati vittime, di una doppia espulsione, quella del 1948 e quella del 1967, sventura che è senza dubbio un po’ facile attribuire a una cospirazione, ma che non è per questo meno reale e drammatica. Per gli Israeliani, non si tratta di una conquista ma di un ritorno. Sento ancora Golda Meir alla fine del giugno 1967 ripetere instancabilmente: "When we came back”, quando siamo tornati, come se niente fosse successo fra l’antica diaspora ebraica e il "ritorno” dopo più di 2000 anni di "erranza”, come se niente fosse successo se non un lungo soggiorno nella "valle del pianto”. Dialogo fra sordi, diranno alcuni. A torto. Ricordiamo un episodio tristemente celebre, la strage, il 9 aprile 1948, da parte delle forze dell’Irgoun e dello Stern, degli abitanti del villaggio di Deir Yassin. 250 vittime ci dicono i professori israeliani, più di 100 dicono i Palestinesi, cosa abbastanza sorprendente. Quanti villaggi palestinesi rasi al suolo? 370 dicono gli Israeliani, 418 rispondono i Palestinesi.
Alcuni silenzi sono abbastanza sorprendenti. Nessuno parla dell’incontro nel 1948 di Golda Meir con il re Abdallah di Transgiordania. Eppure si tratta di un avvenimento di importanza capitale perché, attraverso questo incontro, Israele si accordò in pratica con il re affinché non ci fosse uno Stato palestinese.
Senza dubbio, da una parte e dall’altra si è talvolta nel mito. Se la colonizzazione come "ritorno” rientra nel campo del mito, che dire della definizione del "Muro occidentale”, detto Muro del pianto, come appartenente alla moschea Al Aqsa e atto a commemorare non il Tempio ma il volo del profeta Maometto sulla giumenta Baraq? Non è neanche certo che il re Davide abbia conquistato Gerusalemme battendo un popolo arabo. E a ogni modo a cosa servono, da ambo le parti, queste leggende? I due popoli sono stati traumatizzati, gli Israeliani dal ricordo del genocidio, i Palestinesi da quello dell’espulsione. Sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. È già ammirevole che accettino di coesistere in due racconti paralleli.
Auguro buon vento a questa magnifica impresa.