Un giorno del 1969 la vetrina opaca di un negozio in abbandono di un vicolo del centro di Forlì si aprì e tre giovani, intabarrati in lunghi soprabiti di pelle, baveri alzati e capelli lunghi, molto belli, si fecero avanti e uno di loro, Gabriele, disse: "Noi vogliamo entrare”. Gli altri si chiamavano Micio e Giannetto e a loro si sarebbe aggiunto quasi subito il fratello minore di Gabriele, Danielino.

Li conoscevamo di vista, erano ragazzi "di successo”, dediti, come ha ricordato Micio al funerale, a "vestiti, feste e musica”. Frequentavano il bar giardino di Piazzale della Vittoria, da dove parte quel corso della Repubblica, dove spadroneggiavano invece i giovani bene, nel nome, decisamente peggiore, delle tre esse, "sesso successo e soldi”. 
La meta abituale delle loro scorribande era "L’altro mondo” di Rimini, allora la discoteca più famosa d’Italia. All’improvviso, invece, l’altro mondo fu lì, in quel locale squallido, disadorno, con quattro panche di legno e un ciclostile. Si erano autoreclutati in Lotta Continua. E per noi, l’abbiamo sempre ricordato, fu un grande giorno, perché se quei giovani "senza problemi” volevano cambiare vita allora tutto sarebbe stato possibile.

Del 68 bisogna anche parlare male, certo, ma una cosa è sicura: che la facilità con cui si poteva cambiare vita fu veramente straordinaria. Quella di Gabriele cambiò completamente. Si buttò a capofitto nella militanza e si innamorò, anche, di una compagna, Marcella, che allora faceva l’operaia. Ma doveva andare soldato e forse per quello non la prese bene. Si fece del male, come si usava. E in licenza toccò a uno di noi prenderlo da parte e maltrattarlo: c’era da fare anche fra i soldati, non poteva disertare. Gabriele tornò in caserma e "fece”, eccome, tanto da guadagnarsi il carcere. Seguivamo le sue gesta da lontano, orgogliosi che uno di noi si distinguesse in quel modo, ma anche un po’ invidiosi. Nicola Chiaromonte incontrando un’amica reduce dal duro carcere spagnolo confessa la sua invidia commentando: "Non si finisce mai di essere snob”.

A distanza poi abbiamo anche analizzato le controindicazioni di quella militanza così intensa. Certamente in tanti abbiamo collezionato brutti ricordi e fra i peggiori ci sono certamente gli appuntamenti con persone care bisognose di conforto mancati per "andare alla riunione”. Ma anche nei ricordi dei vecchi militanti dei partiti della sinistra ritorna questo aspetto in qualche modo "disumano” nella vita di chi "a stella è fisso” e non si volta. 
È un’attenuante che pensassimo proprio di farlo, un altro mondo? Fatto sta che ci sbagliavamo di grosso e che "quel voler cambiare tutto in poco tempo” comportava una certa insensibilità, una noncuranza; quasi, al fondo, pur nella grande solidarietà e comunanza, un "non guardare in faccia a nessuno”. E, va detto, anche un carico, forse inevitabile, di arroganza, di disprezzo per chi non credeva nella "grande occasione”, di "forzatura” e di culto della forza che provocò danni gravi, a volte purtroppo irreparabili. 

Di sicuro Gabriele di questo aveva fatto tesoro. Aveva imparato a voltarsi. La stessa esperienza degli "occhi dolci”, una stravagante associazione che aveva fondato quando era finito tutto, forse veniva da lì. Noi che restavamo appassionati di politica come lui, ma da "tifosi” di fronte alla tv (e ce ne saremmo accorti più tardi, una volta tornati all’impegno, che nel tifoso c’è sempre qualcosa di fascistoide) ci ridemmo su. Ma forse, in quell’esperienza, c’era qualcosa che riguardava la gentilezza, la cortesia, il valore della conversazione, dell’amicizia accanto al cameratismo, del guardarsi in faccia, appunto, cose di cui, più avanti, e oggi più che mai, avremmo sentito tutti un gran bisogno. Erano i tempi in cui un altro ex, un grande, era arrivato a capovolgere il pur bellissimo motto olimpico, "più veloce, più alto, più forte” nel "lentius, profundius, suavius”. Ecco, i due periodi della vita di Gabriele, per altro così collegati fra loro, potrebbero forse definirsi alla luce dei due motti.

Ogni volta che ci si sentiva, per via della rivista, era sempre sereno, sempre ottimista: "Va bene, benissimo”. Aveva sempre da fare. Ma non sapevamo bene cosa. L’abbiamo saputo al funerale, dalle testimonianze di insegnanti, ex-alunni, presidi, così commosse, così riconoscenti e quasi riverenti verso il bidello Gabriele. Pensando a questo lato del suo carattere, è stato inevitabile pensare a sua madre, Alba, che allora, malgrado dovesse prendersi cura di un marito, ex-operaio licenziato politico degli anni Cinquanta, ormai chiuso in se stesso e in un suo mondo a parte, aveva aperto la casa ai compagni dei figli. Si era di casa dall’Alba. Al funerale, con lei e con Danielino, Micio e Giannetto, abbiamo rinvangato quei tempi, trovando anche il modo di riderci su. Poi abbiamo saputo che Alba, il giorno dopo il funerale, è tornata ad accudire le anziane a cui, lei pluriottantenne, dedica ancora il suo tempo. 

Gabriele aveva trovato "l’altro modo” per fare politica. Quello che ha a che fare con ciò che, con una brutta espressione,  si puà chiamare il "governo della società”. E più che mai, dopo aver ascoltato al funerale quanto abbia potuto fare una persona sola, è stato inevitabile tornare a pensare alla mancanza del partito, di quel partito della società, che confedera i comitati, le associazioni, i singoli, senza conformarli, ma facendo scambiare le esperienze, rafforzandole nel collegarle, facendole diventare esemplari, per fornire occasioni a chi, e sono tanti, è in cerca di "una causa” a cui dedicare il proprio tempo e per cui far sacrifici. E allora vien pure da pensare che per quella via, di "un altro modo”, ci si potrebbe avvicinare alla meta, comunque certamente irraggiungibile, di "un altro mondo”. 
Peccato. L’occasione per fare quel partito è passata da tempo e ora anche Gabriele non c’è più.
g.s.