La ricchezza, le sue origini, le sue conseguenze.
Ho scoperto di recente, leggendo il rapporto Rota, che il comune del chierese in cui vivo da un terzo di secolo è il secondo più ricco del Piemonte dopo Pino torinese. Lo è diventato negli ultimi trent’anni. Quando ci siamo arrivati, spinti dalla necessità di scappare dallo smog di Torino e attirati dalla bellezza della campagna e dal prezzo delle case, che era metà di quello della Capitale, il paese non era ricco. Era un paese contadino, di contadini proprietari, che qualche volta lavoravano anche in fabbrica, alla Fiat naturalmente (operai contadini, barot). Il paese non era ricco ma era produttivo. Produceva carne rossa, manzi di due anni, per il mercato di città; frutta, verdura, ortaggi vari, legumi, fieno, uva da vino e da tavola, per il mercato locale e per l’autoconsumo. In paese c’erano due macellerie, tuttora aperte, che una volta vendevano carne prodotta localmente, di bestie note quasi per nome. Adesso fanno parte della normale catena di distribuzione. La maggior parte degli allevamenti ha chiuso perché gli allevatori sono diventati vecchi o sono morti, o perché non hanno retto la concorrenza di quelli che usano mangimi proteici. Si vedono ancora, nei giorni sereni non troppo caldi né troppo freddi, alcuni manzi bianchi, vitelli della coscia, che pascolano nei prati; ma sono un residuo. La panetteria ha chiuso. Il negozio di frutta e verdura, che vendeva prodotti freschi locali, ha chiuso. L’unico negozio di alimentari rimasto è la filiale di un supermercato che vende del pane mangiabile, ma verdura stantia, non prodotta localmente. Vendono aglio cinese, asparagi peruviani. In giro si vedono ancora bellissimi orti, ricchi anche di verdure non tradizionali del Piemonte, come le cime di rapa o i broccoli. Ma non fanno parte della rete di acquisto del supermercato, che è centralizzata. Se le vuoi, devi comprarle il sabato a Chieri. Il mercoledì, in piazza, è comparso di recente un ortolano locale, che però vende solo i prodotti suoi. La ricchezza deriva, come a Pino, del resto, dal trasferimento di professionisti giovani benestanti, da Torino, per motivi analoghi ai nostri. Siamo diventati exurbia, per usare il termine americano. Il paese è diventato ricco, ma non è più produttivo. I nuovi residenti lavorano e guadagnano altrove. E consumano anche altrove, per vacanze, viaggi, acquisti. Le uniche persone che producano qualcosa in paese sono le maestre delle elementari e le professoresse delle medie che insegnano ai figli dei nuovi residenti, abbastanza benestanti da permettersi un figlio o due.
La trasformazione.
La trasformazione è cominciata subito dopo il nostro arrivo, con la scelta della giunta di allora di varare un grandioso piano di urbanizzazione, in sostanza di trasformazione dei terreni agricoli in aree edificabili. Il piano aveva sollevato obiezioni da parte di alcuni dei vecchi residenti. Una nuova giunta, formata da due liste civiche e diretta da un competente, aveva ridotto le aree edificabili. A me sembravano (e sembrano) ancora eccessive. Avevo tentato di raccogliere firme nella mia strada, che era una strada contadina, per ridurle ulteriormente. Ma i contadini vedevano avvicinarsi la vecchiaia e la fine del loro modo di produrre. In maggioranza volevano vendere e incassare loro la ricchezza derivante dall’edificabilità. Firmarono solo i pochi che volevano e potevano continuare a lavorare la propria terra. Le costruzioni sono state per lo più brutte. Certo troppe. Sulla loro scia sono cominciate le trasformazioni dall’interno delle poche vecchie case: coperture "temporanee”, innalzamenti, allargamenti di cortili.
La strada in cui abito, quando siamo arrivati, era una vicinale. Era pavimentata con grosse pietre coperte da un po’ di terriccio per non far traballare i carri. L’acqua piovana era smaltita verso valle in una serie di "tampe”, buche circondate da olmi, da cui l’acqua, dopo averle riempite durante i temporali, traboccava nei campi lentamente, senza ondate ed erosioni. I vicini mi hanno informato che ero comproprietario degli olmi che circondavano la tampa dietro casa mia e mi hanno offerto la legna quando la tampa è stata colmata e gli olmi tagliati.
Il tracollo della strada è avvenuto con lo scavo per il gas e per l’interramento dei cavi elettrici, ottime cose del resto, indispensabili per la comodità e la sicurezza. Nella casa, in origine, per la cucina e il riscaldamento, c’era un camino: ma far funzionare davvero un camino e dei fornelli non è facile. È un lavoro gravoso. Prima di traslocare abbiamo fatto mettere una caldaia a gasolio, poi sostituita da una a gas, e i termosifoni. Così siamo anche noi dipendenti dalle reti fisiche, oltre che da quelle informatiche che ci riempiono di pubblicità indesiderata.
L’Enel e l’azienda del gas si sono guardate bene dal ricostituire la massicciata della strada solida com’era. Hanno riempito le trincee alla rinfusa col materiale dello scavo. La pioggia trasformava tutto in fango. Ho cominciato allora a tenere una pala corta in macchina per sgombrare il terriccio e riuscire a passare dopo le piogge. Perciò ho approvato volentieri, con i vicini, la cessione della strada al Comune e contribuito al finanziamento per asfaltarla e costruire una condotta per lo smaltimento delle acque. La condotta non ha mai funzionato: le griglie non sono abbastanza ricettive per alimentarla e si intasano con le foglie. Le tampe erano molto meglio.
I vecchi vicini che mi avevano accolto con grande solidarietà stanno invecchiando con me. Dai nuovi, dalla musica ossessiva a tutto volume dei loro figli, bisogna difendersi come si può. Exurbia, come dicevo.
Le conseguenze indesiderate.
Il paese si sta surriscaldando in senso economico, non solo climatico. Le strade, ripide e strette, spesso a una sola corsia, sono sempre le stesse. I parcheggi anche. Le macchine sono sempre di più e sempre più grandi. I nuovi residenti hanno trasferito in campagna l’abitudine di usare la macchina anche per piccole distanze, in particolare per portare i figli a scuola e riprenderli, e di lasciarla dove gli fa comodo. Il parcheggio della farmacia, su cui gravita anche la scuola, è un piccolo inferno di macchine in moto perpetuo in attesa che qualcuno se ne vada. Se non si vuol partecipare al carosello, bisogna parcheggiare altrove, e andare in farmacia a piedi. Per ora è abbastanza facile. L’ideale sarebbe non prenderla proprio la macchina, ma casa mia è troppo fuori (mezz’ora di buon passo su uno stradone trafficato) per poterlo fare.
Quando sono arrivato, dal primo momento, con la neve e le taniche di gasolio da scaricare, ho scoperto la solidarietà dei vicini, che mi hanno trattato subito come un amico. I nuovi venuti, come è ovvio, mi sono, e forse mi resteranno, ignoti perché non si muovono a piedi, per lavoro, in spazi comuni. Dalle macchine non si comunica. Nell’unico spazio comune, il bar accanto alla scuola, i rapporti sono cortesi; ma le maestre non abitano in paese. I genitori arrivano e ripartono in macchina, ingombrando tutto nel frattempo, come in città. Ce ne sono di cortesi e generosi e di disturbatori. Un giovanotto con bambina si è offerto di accompagnarmi a casa, col buio, una sera in cui la mia macchina non andava. Ha visto un vecchio in difficoltà e ha allungato un po’ il ritorno a casa.
Altri pensano che fare feste tutta la notte con le casse al massimo sia un diritto dell’uomo e che i regolamenti comunali non esistano.
Quando siamo arrivati, malgrado il relativo isolamento, ci sentivamo perfettamente al sicuro di fronte ad eventuali emergenze materiali. Ora siamo invecchiati tutti e non tutti in buona salute. Per giunta tra noi non ci sono medici né infermieri. Se si chiede aiuto per telefono si finisce nella coda del centralino unico di Torino che mette insieme chiamate ai vigili del fuoco, al pronto soccorso, alla Pubblica sicurezza. È rimasta in piedi qualche rete familiare in senso stretto, ma molto sovraccarica perché i problemi sono più grandi delle possibili soluzioni.
Il paese vecchio è invecchiato. Quello nuovo non è più un paese. Siamo più ricchi, almeno i nuovi, ma disgregati.