Cari amici,
da un recente reportage su "Al Hoceima” emerge una realtà molto triste. "La regione si svuota poco a poco. I giovani fuggono, i commercianti pure. Chi resta è tentato dall’immigrazione clandestina. Niente è cambiato, quanto era all’origine della nascita del movimento (Hirak del Rif) è sempre là”, dichiara il ventitreenne Said.
Si ha la sensazione che la mano pesante dello stato contro il movimento pacifico di protesta, che ha portato a tantissimi arresti arbitrari e nel giugno dell’anno scorso a cinquantaquattro condanne per reati contro la sicurezza, abbia colpito tutta la città di Al Hoceima, nella quale ogni cittadino in qualche modo è stato coinvolto, direttamente o indirettamente, dalla brutale repressione. Amnesty International, ancora alla fine del 2018, chiedeva giustizia vera per i 39 incarcerati (dopo che nell’estate la grazia reale aveva fatto liberare undici detenuti e altri quattro erano stati poi rilasciati con la condizionale). Nel rapporto dell’organizzazione internazionale si sottolineava come in questo caso fosse mancata una reale difesa dei condannati: su trentaquattro testimonianze soltanto dodici erano state quelle della difesa; per non parlare della probabile estorsione sotto tortura di alcune confessioni, poi ritrattate. Amnesty sottolineava inoltre come interrogatori e verbali fossero stati condotti e redatti in arabo, senza tener conto della prevalenza della lingua berbera nella regione della protesta. Si chiedeva dunque un giusto giudizio di appello.
Nel mese di aprile di quest’anno il verdetto è arrivato e ha confermato tutte le condanne.
La reazione dei prigionieri è stata traumatica: alcuni di loro, lo stesso leader della protesta Nasser Zefzafi, si sono cuciti la bocca in segno di protesta. Portando così altro dolore e sconforto tra la gente di Al Hoceima. Tra l’altro i detenuti di Hirak sono stati recentemente trasferiti in diverse carceri del nord del paese (Tangeri, Fes...). Secondo la versione ufficiale, in nome di un avvicinamento alla città d’origine. In realtà questo ha provocato una pena ulteriore: ogni famiglia deve ora organizzarsi autonomamente con un notevole aumento dei costi (prima si riusciva a beneficiare di un trasporto unico organizzato dal Consiglio Nazionale per i Diritti Umani).
"Il costo del viaggio è equivalente alla mia pensione mensile. Come poi pagare l’affitto, l’acqua, l’elettricità, la farmacia o il fruttivendolo, per non parlare di cosa devo lasciare ogni settimana a mio figlio per sopravvivere dietro le sbarre? Per vederlo, sono costretta a prendere in prestito denaro”, confida la madre di Nabil Ahamjik, considerato il numero due del movimento e anch’egli condannato, come Zefzafi, a vent’anni di carcere.
Per questo le famiglie dei detenuti, raggruppate nell’associazione Thafra, chiedono un trasferimento per tutti in un’unica prigione prossima ad Al Hoceima, quella di Nador.
La sofferenza delle famiglie come fattore di deterrenza. "Tutti hanno paura”, dichiarava un attivista ancora nel 2017. Nessuno osa più manifestare per le strade di Al Hoceima, tra l’altro ben presidiate dalle forze dell’ordine. Ciò è dovuto, secondo il coordinatore della difesa di Hirak Rachid Belaali, alla "serie di arresti e condanne” che continuano ad affliggere la gente del Rif. È sufficiente pubblicare un post su Facebook: il caso d’un giovane che aveva invitato alla partecipazione alla marcia nazionale di Rabat del 27 aprile scorso è emblematico. Appena rientrato da Rabat, è stato arrestato e ha avuto una condanna a tre anni di galera.
Un clima intimidatorio che fa sentire tanti giovani chiusi in un "paese prigione”. Frontiere chiuse per i più, a sudest con l’Algeria, a nord con i mari e i visti per Europa e America, per i più un miraggio... Nabil Ayouch, regista di origini marocchine, non a caso nato in una banlieue parigina, da decenni racconta magistralmente questo Marocco dei dimenticati. A partire dal suo capolavoro "Ali Zaoua” sui bambini di strada di Casablanca, passando per i dolorosi film successivi, nell’ultimo lungometraggio, "Razzia”, uscito nelle sale l’anno scorso e subito dimenticato (almeno da noi in Italia), Ayouch sperimenta una narrazione complessa, intrecciando storie e periodi storici diversi, centrando il racconto sulla tensione prodotta dalla società repressiva sui personaggi e in generale sui marocchini. Una tensione sempre pronta a esplodere in violenza. Sempre Ayouch in un’intervista dichiarava: "Siamo sul filo del rasoio, con personaggi in un equilibrio assai precario. Si sente che tutto può precipitare da un momento all’altro, ma niente precipita e tutto rimane in tensione. Alla fine però esplode, perché credo che, come questi personaggi, tutti oggi viviamo delle paure nella società in cui cresciamo. Da un momento all’altro, queste paure scoppiano, come in una sorta di catarsi emblematica dell’era che viviamo”.