Sabrina l’abbiamo conosciuta che era già in carrozzella da anni. Da quando, quindicenne, in seguito a una segnalazione di scomparsa, fu fermata dai carabinieri e “abbandonata”, perché in stato confusionale, in una stanza al primo piano di un ospedale dove le finestre si potevano aprire. Se il destino è la combinazione fra indole personale e caso, lì il carattere ribelle di una ragazzina si incastrò nell’imprevidenza, noncuranza o anche solo distrazione, di chi si era preso in carico una minorenne. Sabrina provò a fuggire dalla finestra aggrappandosi al tubo della grondaia, che cedette.

No, non ci si poteva non innamorare di un ragazza così sfortunata ma anche così allegra, strafottente quasi. Restò a fare la volontaria per qualche tempo da noi. La portavamo su e giù per due rampe di scale anche abbastanza ripide, uno davanti e uno dietro alla carrozzella, uno scalino alla volta. Scendere, di spalle, faceva paura, ma solo a noi.

Sabrina con Adriano Sofri
Non voleva assolutamente prendere la patente. Sembrava quasi che lo facesse per ripicca contro la sfortuna. Riuscimmo a convincerla, non si sa come, ma certamente cercando di volgere in positivo quella sua caparbietà. Dal giorno che poté guidare l’auto, per Sabrina la vita cambiò. La libertà era tornata. Girava ovunque, spesso da sola, fece anche lunghi viaggi. Smise di venire da noi. Avremmo voluto assumerla ma non ne avevamo la possibilità. Si trovò anche un lavoro. Incominciammo a vederla sempre in compagnia di un ragazzo, Fabio, che non l’ha più abbandonata e di un altro accompagnatore fedele, Zat, un cane grosso, talmente possessivo che per causa sua, secondo Sabrina, si erano diradati gli amici che si offrivano di accompagnarla per spingere la carrozzella.
Ogni volta che ci incontravamo per strada, ci facevamo festa. Sembrava una persona, tutto sommato, contenta e così passarono anni anche sereni.

La sfortuna, però, a volte, non dimentica. All’età di quarantanove anni una piaga da decubito portò Sabrina in punto di morte. La salvarono ma le amputarono una delle gambe inerti. E tornò a girare, a rassicurare chi la incontrava: “Non c’è male”, ammiccando alla gamba vuota del pantalone. Non dava a vedere i suoi tormenti. Scriveva poesie: Quale male oscuro ha travolto le mie antiche, marce fondamenta tanto da farle crollare e farne rinascere delle sane, fragili, di carta velina, ma rigogliose e vive. Ogni stretta di mano è salvifica, non nego a nessuno, anche a perfetti estranei, un sorriso sdentato, un saluto vero…
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dopo pochi mesi le diagnosticarono un tumore ai polmoni che non dava scampo. Sonia, la sorella, ci ha detto che, paradossalmente, da quel momento si è rasserenata. Infatti l’ultima volta che uno di noi l’ha incrociata in piazza, ha detto: “Faccio la chemio, ho metastasi, ma, dai, sto bene”, lasciando interdetto l’amico. Sonia racconta: “Mi aveva dato da leggere uno scritto dove c’era la frase: ‘nel buio ascolto le voci dei sommersi e salvati come fece Calvino’, e il giorno dopo l’aveva chiamata per dirle che era Levi, ovviamente, non Calvino, e che ‘le metastasi cerebrali le davano un po’ di problemini alla memoria’. E si era fatta una risata. Si sentiva già sull’orlo del precipizio, e ne era angosciata, ma riusciva sempre a trovare un lato ironico”.

Sabrina era di sinistra, certo. Alla camera ardente ricordavamo che era venuta a Pisa, di fronte al carcere in cui stava entrando Adriano Sofri, che aveva conosciuto a Forlì ai tempi dell’assedio di Sarajevo. Voleva portare la sua solidarietà al “capo del 68”, l’anno della grande ribellione, l’anno in cui era nata. Pensando alla vita di Sabrina, verrebbe da credere che la lotta alla sfortuna, ragion d’essere della sinistra, sia del tutto velleitaria. Non è così, alla sfortuna si può sottrarre terreno, e tanto, e quindi lottare si deve, ma, certo, non la si può debellare. Quando si accanisce, e non c’è speranza, non resta che affrontarla a testa alta, se ci si riesce, cercando di rasserenare il più possibile chi resta e di lasciare un buon ricordo. Così ha fatto Sabrina. In una delle ultime poesie, esprime a modo suo, da atea, l’idea che ci ritroveremo. Recita: Ci incontreremo a’ noveau, tutti noi. Sarò il sasso in cui inciamperà il tuo piede, la goccia di pioggia che colpirà il tuo occhio, il cespuglio appena nato che innaffierai con la pipì, una foglia agitata che ti spaventerà, la conchiglia che raccoglierai e darai a tuo fratello, sarò la mela rossa e succosa che addenterai e ti farà pensare a me. Sarò il cucciolo che ti guarderà intensamente, chiedendoti qualcosa che non capirai. Sarò tutte le cose che per un attimo vi faranno tornare alla mente quel groviglio intricato a volte lieve, a volte pesante, che sono stata. Ma continuate, la strada è lunga e impervia, dolce e salata, io sarò con voi.



Hanno detto che ha dato istruzioni molto precise per la camera ardente prima della cremazione e sugli oggetti che voleva ci fossero con lei nella bara.
Pur sapendo che l’agonia, nei casi come il suo, poteva essere molto dura, ha fatto fare le carte per stare a casa, insieme alla madre che le ha dedicato la vita, alle sorelle, a Fabio e al suo cane. Poco prima di morire ha detto all’infermiera del servizio home care che era una bella ragazza e le ha sorriso.
gs