Negli ultimi cinquant’anni le antologie di poeti italiani sono state numerose come mai prima. Di alcune si è parlato di più, di altre meno, ma le più discutibili sono state quelle in cui i poeti nati dal 1900 al 1930 sono stati messi insieme a quelli nati dopo il 1935: si fingeva così una continuità storica e letteraria che in realtà non c’era. Insomma, come partire da Carducci e continuare con Ungaretti. Le ragioni della sorprendente discontinuità che invece c’è stata, non è facile enumerarle tutte. Si può dire comunque che con la moltiplicazione inusitata del numero dei poeti si è verificata anche una caduta del loro prestigio culturale e pubblico. Si è passati da una società letteraria ristretta e capace di un notevole autocontrollo anche nel corso dei conflitti più accesi, a una sua dilatazione tale che tendenzialmente includeva tutti o chiunque: cioè troppi autori perché fosse possibile ricostruire un certo assetto panoramico criticamente interpretabile, come era avvenuto in precedenza nel Novecento.
Se si prende per esempio l’antologia curata da Enrico Testa (lui stesso poeta), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (Einaudi, 2005), che si apre con Sereni, Caproni, Luzi e Bertolucci per concludersi con Sovente, Frasca, Pusterla e Anedda, si capisce subito che qualcosa di fondamentale non va. Una ventina sono gli autori nati fra il 1912 (Bertolucci) e il 1932 (Raboni) e più o meno altrettanti quelli nati fra il 1936 (Gianfranco Ciabatti) e il 1958 (Antonella Anedda). Solo che i primi venti sono più o meno tutti quelli che hanno ricevuto pressoché unanimi riconoscimenti (non giustificabile è l’assenza di Pasolini, mentre poco accettabile la presenza di altri, da Ripellino a Cacciatore a Ranchetti); mentre i più giovani sono un campione irrealisticamente esiguo e arbitrario. Se si pensa alla quantità di autori pubblicati da prestigiose o marginali casi editrici, avrebbero potuto esserne antologizzati almeno il doppio. Poco chiara, se non infondata, è poi la scelta del titolo dell’antologia: ci si chiede perché un intero mezzo secolo di poesia sarebbe catalogabile come “post-lirico”. Che cos’è lirica? Che cosa non lo è?
Più fedele alla situazione e alle sue caratteristiche generali è la mastodontica antologia Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, pubblicata dall’editore Sossella nello stesso 2005, che però antologizza solo poeti nati dopo il 1945 e che hanno esordito dal 1973 in poi. Moltissimi sono i poeti, ma non pochi anche i curatori: Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli, Paolo Zublena. Più di mille pagine, formato grande, ampio saggio introduttivo non firmato e altri firmati in apertura delle quattro sezioni, apparati bio-bibliografici esaurienti. Si tratta insomma della ricognizione più documentata e commentata sulla poesia italiana dopo la fine della continuità novecentesca, avvenuta con gli anni Settanta e soprattutto fra Novecento e Duemila.
Il più giovane degli esordienti dopo il 1973 era Milo De Angelis (nato nel 1951), giudicato non a torto e da molti una rivelazione, che però con il passare degli anni non ha smesso di rivelare se stessa accumulando enigmi su enigmi: il cui magnetismo, a sua volta, non ha smesso di affascinare molti lettori. Già con il suo primo libro, Somiglianze (1976), la formula magica di De Angelis produce tutti i suoi effetti. Le definizioni di Zublena sono acute e accettabili, purché le si legga non solo in positivo ma anche, se si vuole, in negativo. Per esempio: “il rigore della concatenazione delle immagini si fa più verticale, fino a giungere a un potente e ghiacciato astrattismo”. Oppure: “la complessa sintassi delle immagini né automatica né propriamente surrealistica, ma semmai coattivamente vertiginosa”. Anche un solo esempio dà l’idea dell’originalità del procedimento stilistico di De Angelis e della sua insuperabile, o mai superata, elusività.
    
    “Sta’ zitto. Tu parli solo per dimenticare”.
    Ma non c’erano muri
    e le frasi scomparivano insieme al vento.
    “Lo sai, il mio nome
    significa: io sono cambiata”
    e poi non c’è silenzio, dice, se uno si accorge,
    non c’è amore
    alla fine di un ricordo.
    È scomparsa l’ombra delle case
    in questo esterno di autocarri e di calce
    e lo spazio è troppo
    perché le parole siano lì.
    “Non l’hai inventata tu, la gioia, non sei
    abbastanza intelligente… tu che ti disperi
    perché ciò che fai diventa…”
    E questi alberi, sempre più radi
    le grandi strade a nord della città
    la nebbia che sta coprendo tutto, i passi
    “ma così non potrai a lungo…”
    e le mani sono umide, come l’erba, oltre la strada
    e ferme, non si toccano, non saranno mai
    sentimentali.
    “Non hai fatto che perdere tempo. Fuggi,
    una volta tanto,
    da quello che ti resta”.    
(da Somiglianze)

Un colloquio a frasi smozzicate fra due giovani amanti? La periferia, gli autocarri, l’erba, la calce, gli alberi. Qualcosa incombe? È in gioco la vita? C’è bisogno di scelte morali mai ancora compiute? Tutto si regge su uno sfondo narrativo la cui realtà resta ignota, e su un abile dosaggio di frammenti in cui le parole sono più gesto che significato, più tono vocale che dialogo. Uno squarcio di mondo sospeso fra essere e dover essere, fra un adesso e un non ancora. Una solitudine in due sull’orlo del vuoto? Amore e droghe? Il modello sembra essere “I giardini di marzo” di Lucio Battisti e Mogol, una delle canzoni più amate di quegli anni. Battisti è stato soprattutto un perfetto e toccante interprete dell’adolescenza. Anche De Angelis sembra essere stato e rimasto un poeta adolescente, di passioni, smarrimenti, interrogativi e perentori imperativi. Questa è la sua migliore qualità, ma questo è anche il suo limite. In Biografia sommaria (1999) la maturità arriva tardi e si conclude con una lancinante nostalgia di quello che è stato, o forse non è mai stato veramente:


    Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos
    di lingue e colori, traumi e nuovi amori,
    entra alla Bovisasca, spazza via il novecento
    della solitudine maestra, del nostro verso
    sospeso nel vuoto. Altre donne si aggirano
    tra gli scarti del mercato, nella nuova miseria
    di questo istante. Io siedo al caffè sotto casa,
    guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario
    dodici agosto, inizio a convocare le ombre.

    Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
    di Belle Époque e un sorriso sperduto di ragazzo.
    E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria
    a tre secondi dalla fine. E Roberta
    che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
    in un silenzio di ospedali, quando il tempo
    rivela i suoi grandi paradigmi.

    “Torneranno vivi gli amori tenebrosi
    che in mezzo agli anni lasciarono
    una spina, torneranno, torneranno luminosi”.

La metamorfosi c’è stata. I vuoti, le sospensioni di senso vengono risolte in una normalità sintattica del tutto nuova che allinea annotazioni, ricordi e qualche veloce accenno interpretativo, in attesa che gli “amori tenebrosi” del passato tornino ancora, ma “luminosi”. Di uno dei più amati e rispettati nuovi poeti degli anni Settanta si può dire che le nebulose, tormentose passioni di un’adolescenza che non passa e che alimenta un lungo, inquieto dormiveglia poetico, si condensano alla fine, all’improvviso, in un classico epitaffio sulla fine della giovinezza, cioè di tutto.
L’esordio di Patrizia Valduga, di poco più giovane di De Angelis, fu l’evento più sorprendente (perfino calcolatamente sorprendente) degli anni Ottanta. Già prima, per esempio con Patrizia Cavalli, si era visto un ritorno naturale, del tutto istintivo e non programmato alle forme classiche, soprattutto nell’uso spontaneo dell’endecasillabo e delle rime. In Valduga succede qualcosa di diverso: il ritorno del passato poetico italiano, rimosso in quasi tutto il Novecento, è ora echeggiante e citazionistico. Quel ritorno è una sontuosa maschera teatrale erotico-lugubre, ma sembra anche dovuto a una specie di possessione medianica, grazie alla quale anche il virtuosismo metrico e retorico non si sa più se sia un prodotto di laboratorio o il risultato di uno stato mentale alterato dall’evocazione negromantica di voci aliene. Solo qualche strofa estratta da tre diversi sonetti:

In nome di Dio, aiutami! Ché tanto
amor non muta e muta mi trascino,
Ancora sete ho di te… soltanto
sola a te solo e col sole declino

(…)
    
Vieni, entra e coglimi, saggiami provami…
    comprimimi discioglimi tormentami…
    infiammami programmami rinnovami.
Accelera… rallenta… disorientami.

(…)

Signore caro, tu vedi il mio stato,
vedi che ho l’avvenire nel passato,
e questo rotto scoppiato e crepato.
Vita non sono mia, ma del peccato.
(da Medicamenta e altri medicamenta, 1982, 1989)

Il paradosso stilistico è che questa poesia fatta di altra poesia echeggiata, non ha niente di selettivo e di filtrato: è invece selvaggiamente barocca e carnale, erompe dal presente fisico dell’autrice, amante e amata nell’atto di amare, dolente nel momento esatto in cui soffre. È proprio in questo senso, cioè nella “presenzialità” in cui il passato torna a esplodere, che questa poesia ha bisogno di essere teatrale, sempre in scena in un qui e ora. L’iperletterarietà non è affatto uno strumento distanziante, è piuttosto l’artificio che permette di aggredire il lettore trascinandolo violentemente in un mondo allucinato e stregato.
Qualcosa di diverso avviene più tardi con l’uso ripetuto, seriale delle quartine, ognuna isolata in sé, eppure in un perpetuo susseguirsi di variazioni sugli stessi temi, spesso con una malinconica grazia settecentesca violentata da improvvisi scatti di impazienza:

Addio! sentiero dell’amore bello
con le sue rose e tutte le sue spine.
Addio a un altro pezzo di cervello
e buonanotte anche alla notte. Fine.

Oppure:

    Di quel poco che resta di quel fuoco
    resta l’amore quando non si fa
    che soffre troppo del suo troppo poco,
    però profuma di felicità.
(da Cento quartine e altre storie d’amore, 1997)

È uno dei vari sintomi, il più estremo e provocatorio, di quel distacco dall’avanguardismo novecentesco, informale, anticomunicativo che si noterà sempre più spesso in un’epoca che la critica ha definito e teorizzato come postmoderna. Un distacco che a metà del decennio Settanta fu più generalmente culturale, un modo del tutto diverso, non ideologico, di impugnare la poesia come genere maneggevolmente soggettivo, diaristico. Ma più tardi quel distacco dagli estremismi formali della modernità ha permesso un riuso sperimentale di forme del passato, visibile soprattutto nella passione manieristica, ironica, o gratuita e rassicurante, di endecasillabi, sonetti, settenari e rime.