Cari amici,
nel verdeggiante villaggio di Brundall, nelle campagne di Norfolk, è stato messo in vendita un edificio piuttosto insolito. La sua posizione costituisce una forte attrattiva alla vendita, per non parlare del fatto che non ha alcuna finestra, altra caratteristica che contribuisce alla sua originalità. Per accedervi è necessario scendere una scala di metallo in un pozzo di cemento profondo cinque metri. Questa sorta di scrigno di cui vi parlo è uno dei trentacinque bunker antiatomici dell’area, ma ovviamente ha ben più valore del comune rifugio da giardino: era infatti stato designato come “stazione principale” ed equipaggiato con strumenti per la comunicazione radio. È pure schermato contro gli impulsi elettromagnetici delle esplosioni nucleari; avrebbe dovuto ospitare i membri della United Kingdom Warning and Monitoring Organisation (l’ente civile ora disciolto il cui compito era comunicare alle autorità dati su un’eventuale esplosione nucleare). Costruito nel 1961, è sopravvissuto alla Guerra fredda e ora è una sorta di stramberia, una proprietà venduta da un’agenzia immobiliare specializzata in edifici bislacchi -argomento di conversazione per ricconi.
È difficile oggi ricordare quanto fossero febbrili i discorsi relativi alla prospettiva di una catastrofe nucleare. Ricordo che gli insegnanti raccontavano di quanto i bambini fossero spaventati e di come la minaccia, molto concreta ed esistenziale, si diffondesse nelle classi e avvelenasse i loro sogni. Il governo aveva promosso lo slogan del “duck and cover”, “accovacciati e trova riparo” -cioè, in caso di esplosione nucleare, sgattaiola sotto il tavolo. C’era poi una serie di film apocrifi che erano d’obbligo per gli attivisti: per esempio, la docu-fiction War Game, produzione del 1966 della Bbc, che ancora veniva trasmesso negli anni Ottanta, o il cartone animato, molto influente, “When the wind blows”, di Raymond Brigg. E chissà se qualcuno ricorda ancora la “Campagna contro il disarmo nucleare” e le sue grandi marce da Aldermaston a Londra. C’erano gruppi di attivisti locali che tracciavano i percorsi delle scorie nucleari, e gli accampamenti femminili, fonte di grande ispirazione, contro l’installazione dei missili Cruise a Greenham Common.
C’era molta azione diretta e, proprio come con l’odierno movimento ambientalista “Extinction Rebellion”, c’era una grande varietà di persone che ci si impegnavano, ma si cercò di infangare l’intero movimento accusandolo di essere sporco. La domanda fondamentale era diventata quanto queste persone impegnate a rendere il mondo un posto migliore… si lavassero.
Ovviamente, se desideri salvare il pianeta, che sia da un armageddon nucleare, o da un catastrofico cambiamento climatico, devi per forza essere uno sporco hippy, o per dirla con Boris Johnson, una sorta di “punkabbestia asociale” che vive in “bivacchi che puzzano di canne”. Si tratta di termini volgari e cinici, che mirano a isolare e disumanizzare. Una tecnica nota alle comunità di outsider o emarginati, dagli irlandesi agli ebrei. In questo caso, il “rendere altro” serve a far desistere la maggioranza delle persone dal sostenere questi movimenti, perché certo nessuno vorrebbe essere definito un puzzone o essere assimilato a dei puzzoni che, dio non voglia, sono pure degli hippy.
La vergogna, in quest’epoca senza vergogna, viene usata per frustrare l’eventuale impegno di tante persone comuni, come ex-poliziotti, piccoli esercenti commerciali, insegnanti, docenti universitari, commessi, studenti, medici e infermiere, chi lavora nei media, pubblicisti, artisti, dog-sitter, gente di ogni età, di tutte le provenienze, e che magari già si era avvicinata a questo movimento che si è diffuso in tutto il mondo. Ma perché permettere alla verità di rovinare una dichiarazione a effetto (di Johnson), o gli interessi costituiti (degli inquinatori)?
Comunque questa avversione agli hippy non sembra avere un gran impatto sul movimento Extinction Rebellion. È un po’ come pensare che ballando a Trafalgar Square si possa davvero offendere qualcuno. Perché mai si dovrebbe impedire di manifestare, o di esprimere il proprio punto di vista, a chi balla o ha il piercing al naso? Forse che il loro aspetto sminuisce il loro impegno, o le loro preoccupazioni?
La rivolta di ottobre è finita con molti arresti e operazioni di polizia più severe, dopo che ad aprile il governo aveva criticato l’atteggiamento “morbido” delle forze di sicurezza. Ci sono stati arresti preventivi e la polizia ha confiscato materiali usati per gli accampamenti, cosa mai successa prima. Ma è l’atmosfera che c’è in giro a doverci preoccupare di più. L’idea che la protesta non violenta di qualcuno sia meno legittima della protesta non violenta di altri.
Un uomo, che si era rifiutato di prendere la rivista di Extinction Rebellion che gli stavo offrendo (cosa che è assolutamente in suo diritto), ha aggiunto che lo rifiutava perché gli sembravo troppo “mistica”. Mentre io ero lì senza alcun orpello di misticismo, chiusa nel mio impermeabile nero standard. Ma forse il semplice fatto di avergli chiesto se desiderava in omaggio la rivista di un gruppo di protesta l’ha fatto sentire autorizzato ad aggiungere quell’aggettivo “mistico”, come se la protesta, in generale, fosse qualcosa di ultraterreno, vagamente hippy (senza offesa ai mistici).
Ma torniamo ai bunker. Penso a quanto distante e antica suoni oggi l’epoca della Mutually Assured Destruction (distruzione mutua assicurata) e a come l’infrastruttura dell’epoca sia ormai caduta in disuso. Le vecchie reti di spazi sicuri per i pochi saranno anche scomparse, ma non l’impulso di chi può permettersi di trovarsi nuovi bunker, fisici o mentali.
(traduzione di Stefano Ignone)
Extinction Rebellion
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Una Città n° 260 / 2019 ottobre
Articolo di Belona Greenwood
Tradotto da Stefano Ignone
Extinction Rebellion
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