E ora ecco una personale valutazione critica, senza dubbio discutibile, ma di cui sono convinto da qualche decennio: a giudicare dai libri e dagli autori pubblicati nelle maggiori case editrici, un tempo le più selettive, e a giudicare dai giudizi critici che circolano come autorevoli o perfino indiscutibili, direi che “nessuno capisce più la poesia”; nessuno, cioè poche decine di persone, fra le quali non è detto che siano compresi neppure la maggior parte dei docenti universitari di letteratura, né la maggioranza dei recensori. Accade con una frequenza preoccupante che se si legge una pagina critica o un articolo e poi si leggono i testi poetici a cui si riferiscono, si rimane sorpresi perché troppo spesso non si capisce che cosa abbiano a che fare, fra loro, le parole del critico e le parole del poeta.
Più che delineare il ritratto complessivo dei loro autori, ho deciso di scegliere e leggere qui tre singoli testi di tre diversi autori, secondo me fra i più notevoli e originali di oggi. Testi che li caratterizzano in modo particolarmente efficace e chiaro. La prima è una poesia abbastanza lunga di Riccardo Held, di cui tralascio alcune strofe:
La vedo e poi la so, la sento intorno
questa cosa che brucia senza luce
questa notte nascosta dentro al giorno
questa parola che non si traduce;
la vedo dentro agli occhi della gente
estranea che non so più cosa sia
ma perché la mia gente? I miei amici
che sono specie mia, famiglia mia,
anche noi questa cosa nello sguardo
o tra gli occhi e la bocca all’improvviso
una specie di assenza, sospensione
una vacanza breve provvisoria
come un non esserci per un momento,
migrati via dentro di sé lontano
dentro un altro recinto una paura
breve e cattiva come una domanda,
quelle che non si vogliono sentire.
Ma è solo per un attimo poi tutto
torna all’ordine bello della tavola:
siamo piuttosto bravi non c’è dubbio
con tovaglie e posate e la cucina
spesso è davvero di ottimo livello,
sappiamo starci a tavola e i discorsi
a volte sono buoni pure quelli.
(...)
io vorrei proprio far fermare il tempo
e vorrei che nessuno andasse a casa.
Non fosse tra le palpebre e le labbra
questa fuga dal posto questo scarto
questo piccolissimo scisma di paura
breve e cattiva come una domanda,
quelle che non dobbiamo articolare
quelle che non si vogliono sentire
(“At dinner”, da La Paura, Scheiwiller 2008)
Le prime due cose che si notano sono il modo in cui è accuratamente organizzato il testo in strofe di quattro versi, ogni verso un endecasillabo, all’inizio con rime più regolari, poi con qualche assonanza. La seconda cosa che il lettore nota è che in una forma così solida e controllata, a cui l’orecchio dopo un po’ si abitua, viene ...[continua]
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