Da molti anni, le narrazioni dei grandi conflitti armati del secolo scorso hanno conosciuto significative trasformazioni. L’accento posto con insistenza crescente sul carattere delle guerre del 1914-1918 e del 1939-1945 come guerre “totali” ha indotto un mutamento di prospettiva riconducibile in larga misura alla crescente attenzione rivolta ai modi attraverso i quali si è attuata l’integrale subordinazione della società civile alla prospettiva bellica e con essa la permeabilità della linea di demarcazione tra fronte e retrovie, e quindi tra civili e militari, giunta al suo punto culminante nel corso della Seconda guerra mondiale.
Già il centenario della Grande guerra, da poco trascorso, si è svolto all’insegna di una ricostruzione degli eventi che, capovolgendo precedenti impostazioni, ha privilegiato, ad esempio, le fonti diaristiche ed epistolari che gettano uno sguardo diretto sul vissuto dei combattenti e dei loro familiari, così come la mobilitazione del fronte interno è stata esaminata dal punto di vista dell’impatto sulle diverse realtà sociali, e in particolare sulle classi subalterne; ancora di più, per quanto concerne la Seconda guerra mondiale, l’attenzione rivolta in passato pressoché esclusivamente alla storia politica e militare si è spostata -segnatamente, in Italia, per il periodo successivo all’8 settembre 1943- sull’esperienza soggettiva dei combattenti e della popolazione, soprattutto sulla parte più debole e indifesa di essa, sui traumi collettivi e individuali, sulle strategie di sopravvivenza e di resistenza, nonché sui modi di rappresentare e rappresentarsi il conflitto. La tematizzazione della guerra ai civili ha altresì consentito di portare alla luce anche vicende del Dopoguerra offuscate dai rumorosi esordi della Guerra fredda: emblematico, a tale proposito, il caso degli spostamenti di popolazione, causati dalle deportazioni, dalle persecuzioni e dalla riduzione in schiavitù della manodopera straniera per sopperire alle esigenze della produzione bellica del Terzo Reich, in una misura tale da ridisegnare la carta etnica d’Europa, a prezzo di grandi sofferenze per milioni di persone.
In questo contesto, la narrazione dell’esperienza vissuta della guerra, superati il desiderio di oblio e le reticenze prevalenti nei primi anni di una pace insicura, si è andata costituendo come uno spazio pubblico nel quale hanno ripreso la parola coloro ai quali si era tentato di toglierla in modo definitivo e con una brutalità senza precedenti, ed è proprio in questo spazio che la figura del testimone ha preso progressivamente piede, occupando la scena e assumendo un ruolo di primo piano nel modo stesso di pensare e di fare la storia. Basti pensare -come ricorda Annette Wieviorka in un libro, L’era del testimone, diventato ormai un classico- alle testimonianze dei sopravvissuti dei campi di sterminio, che, emerse in modo massiccio e inusitato durante il processo Eichmann, si sono progressivamente manifestate come un modello di ricostruzione della memoria che, tra l’altro, ha restituito un ruolo e una rilevanza, tanto problematica quanto proficua, alla sfera della soggettività e della emotività.
Tutto ciò non ha mancato di favorire nuove e fruttuose esperienze di incontro e di contaminazione tra la storiografia, la produzione audiovisuale, cinematografica e televisiva, e la letteratura: gli esempi sono molteplici, ma in questa sede preme soprattutto segnalare come proprio a questa osmosi si debba risalire per spiegare la ragione del ritorno di interesse per il romanzo storico, che sta vivendo, non solo in Italia, una stagione particolarmente feconda, in virtù del favore del pubblico e della critica, largamente assecondato dal mercato editoriale: un favore sancito, l’anno scorso, dall’assegnazione del prestigioso premio Strega proprio a un romanzo storico, M. il figlio del secolo di Antonio Scurati.
In effetti, il romanzo storico odierno si è rivelato uno strumento particolarmente idoneo (in alcuni casi anche più del saggio storico) a rappresentare i diversi modi in cui, nella lunga durata dei conflitti, si strutturano le grandi fratture, le crisi individuali e collettive, il crollo di convinzioni e comportamenti radicati, e a sondare la complessità e il carattere traumatico e accelerato dei mutamenti prodottisi nelle collettività e nelle persone.
I termini di questo raccordo tra ricostruzione storica e narrazione letteraria che si è cercato qui sommariamente di definire, si possono ritrovare in un felice e riuscito equilibrio nella riedizione del bel romanzo (La mina tedesca: il vero romanzo di Giaime Pintor, Roma, Ensemble, 2019) che Carlo Ferrucci, saggista, poeta e traduttore, ha dedicato a Giaime Pintor, suo zio materno: ricostruendone le ultime settimane di vita, l’autore ha ripercorso contestualmente l’itinerario intellettuale e morale che condusse il giovane letterato, già affermato germanista e collaboratore di primo piano della casa editrice Einaudi, verso la scelta resistenziale e l’estremo sacrificio, motivata, nella mai troppo letta ultima lettera al fratello Luigi, da un’altissima riflessione sui doveri morali e politici degli intellettuali e sulla cultura come impegno civile, riflessione che è diventata emblematica di un intero passaggio storico.
Nel romanzo, il percorso del protagonista si snoda in un contesto narrativo popolato di personaggi che, al di fuori di ogni stereotipo, si trovano a rappresentare i dilemmi e le incertezze di un momento storico nel quale è difficilissimo orientarsi, e nel quale la radicalità della crisi in essere se da un lato pone ciascuno di fronte a scelte improcrastinabili (prendere il proprio posto “in un’organizzazione di combattimento”, scriverà Giaime al fratello) dall’altro si intreccia con le paure e il desiderio di fuga da una realtà che incombe minacciosamente sui destini individuali e collettivi.
Emblematici, a questo proposito, alcuni passaggi del libro. Tra gli altri, la descrizione del viaggio in treno da Roma verso Brindisi -dove Giaime si propone di congiungersi all’Esercito Regio, di cui è ufficiale- offre uno spaccato sui modi diversi di percepire la precarietà del momento: in uno scompartimento che è un microcosmo, c’è il sottufficiale che avverte la vergogna della sconfitta e al tempo stesso la necessità di “mettere su” qualcosa per un riscatto che renda definitiva la rottura con il fascismo, ma anche con la monarchia; il borghese, attaccato all’illusione di una uscita indolore dal conflitto, incapace di cogliere appieno la drammaticità del momento; le donne del popolo, ancora legate all’idea della monarchia, se non del fascismo, perché il re e Badoglio sono comunque un appiglio a un mondo conosciuto, mentre dinanzi a loro si apre la voragine dell’imprevedibile; lo studente, il più disorientato di tutti, ma alla fine desideroso solo di riprendere la routine quotidiana con Elisabetta, la ricca fidanzata ebrea sfollata da Roma, che a sua volta si abbandona all’illusione di una conclusione imminente e felice di una vicenda destinata invece a tutt’altro e tragico esito.
Questo viaggio verso il Sud, all’interno di una zona grigia che non è lo sfondo amorfo dell’Italia tagliata in due ma si articola in mille differenti sfumature, fa da sfondo al viaggio interiore di Giaime Pintor, tra dubbi e certezze maturate nell’arco dei tre anni di guerra in una posizione singolare e indubbiamente privilegiata, come quella di ufficiale distaccato presso la missione militare italiana a Vichy (dove era stato destinato in seguito alla morte in un incidente aereo di suo zio, il generale Pietro Pintor): una condizione che gli aveva consentito di continuare a coltivare la sua vocazione letteraria e, in particolare, la collaborazione con la casa editrice Einaudi, e alla quale l’8 settembre aveva bruscamente posto fine.
Proprio da qui ha inizio il romanzo di Carlo Ferrucci: il giovane ufficiale si trova a Piazza Colonna, in attesa del comizio dei partiti antifascisti, che non avrà luogo, perché la fine della battaglia di Porta San Paolo, come gli spiega l’esponente comunista con cui si trova a dialogare, impone un adeguamento delle tattiche resistenziali alla nuova situazione di occupazione della città da parte dei tedeschi. Ritornando verso casa, Giaime si imbatte in un camion carico di soldati della Wehrmacht, che lo scherniscono cantando una canzoncina antitaliana. La sua replica è silenziosa, ma eloquente: recita tra sé dei versi di Rilke, il grande poeta tedesco che aveva recentemente tradotto per Einaudi e -immagina il narratore- li usa come ideali pallottole contro la provocazione degli ex alleati, che in cuor suo ha già deciso di combattere. In questo breve episodio di fantasia, che rinvia al legame che Pintor aveva stabilito con la cultura e la lingua tedesca, viene evocata anche una particolare idea del rapporto tra politica e cultura, tra coscienza civile e vocazione letteraria, che occupa tanta parte della lettera al fratello Luigi: la scelta è inequivoca e irreversibile, occorre mettere da parte le prerogative dell’uomo di cultura e combattere per riscattare l’Italia dal giogo nazifascista. E, di conseguenza, essere un “mediocre” partigiano (sono sempre parole della lettera) piuttosto che un bravo letterato che però volge le spalle al destino comune, appare l’unica opzione possibile nel momento dato. Ma l’immaginazione letteraria, che raffigura il protagonista mentre recita tra sé Rilke come risposta al dileggio dei soldati tedeschi, sintetizza in modo efficace un ulteriore significato della scelta resistenziale di un giovane intellettuale, scelta che ha molto a che fare non solo con la difesa della propria identità di uomo di cultura, ma anche con la difesa del posto della letteratura nella società, e con la necessità di riscattarla con l’azione dall’umiliante asservimento alle ragioni della guerra dell’Asse e restituirle quella libertà che le è propria. Si tratta, dunque, di una visione lungimirante del rapporto tra l’impegno civile della cultura e la libertà dell’espressione artistica, al di fuori di qualsiasi codificazione esterna: un tema, peraltro, che Giaime aveva già affrontato in uno scritto del 1940 (Un’antologia tedesca), nel quale aveva liquidato una antologia tedesca di “poeti” nazisti, sostenendo che “alla luce di una nostra nozione di poesia, queste cinquecento pagine sono bianche e nitide come i fogli di un calendario”.
Un altro tema di riflessione storiografica che traspare nelle pagine del romanzo riguarda il dilemma, che certamente fu comune a molti giovani sotto le armi, tra la consapevolezza della necessità di una rottura definitiva con il vecchio ordine, rappresentato dal re e da Badoglio, e l’esigenza di potere contare, nella lotta contro le potenze dell’Asse, su un minimo retroterra istituzionale, sia pure su un simulacro di ordinamento statale, come quello ricostituitosi in Puglia. Anche in questo caso, il romanzo affida questo interrogativo a un dialogo, questa volta tra Giaime e un amico del padre, un preside in pensione, che, dopo avere ascoltato le parole del suo interlocutore sulla necessità di una vera rivoluzione in grado di dare vita a un ordine più libero e più giusto, lo interroga sulla compatibilità tra questa visione e la decisione di ricongiungersi ai resti dell’Esercito regio a Brindisi.
Un dilemma che Giaime aveva ben presente, dato che proprio a Brindisi avrebbe concepito un lucido saggio di analisi della situazione (Il colpo di stato del 25 luglio) nel quale esprimeva la convinzione che la crisi apertasi con la caduta di Mussolini avrebbe dovuto travolgere anche la monarchia per potere configurare una sbocco coerente alla lotta antifascista, con la costruzione di un nuovo stato democratico. Anche alla luce di questo scritto, la decisione di abbandonare Roma ormai nelle mani dei nazisti e raggiungere Brindisi appare segnata da una forte contraddittorietà: nel romanzo, lo stesso protagonista, dialogando con l’amico preside, fa un’ammissione in tal senso, che rinvia al grande tema della continuità dello Stato, visto però nella prospettiva concreta della vertigine che coglie chi, nella dissoluzione delle istituzioni, vede scomparire un mondo conosciuto e va alla ricerca di un qualsiasi appiglio che lo possa ricondurre anche a una semplice parvenza di normalità.
La liquidazione dell’illusione circa la possibilità che il risicato retroterra istituzionale costituito dal regno del Sud potesse rappresentare un punto di riferimento della guerra di Liberazione coincide dunque con la decisione di Giaime di abbandonare il clima surreale della Brindisi monarchica (vanno ricordate a proposito le belle pagine del dialogo con l’amico/antagonista Edgardo Sogno, ossessionato dal timore di un esito rivoluzionario della lotta antifascista) e di aderire alla proposta degli emissari del Fronte nazionale, di disertare e raggiungere Napoli, da pochi giorni liberata dall’insurrezione popolare, per unirsi al corpo di volontari che si intendeva organizzare sotto il comando del generale Pavone. Gli eventi successivi sono noti: il reclutamento di volontari per la formazione di un corpo italiano di combattenti viene prima approvato e poi bloccato dagli alleati e da Badoglio, preoccupati per le conseguenze politiche, e Pintor a questo punto si addestra come volontario per una missione sotto l’egida del comando britannico, finalizzata a portare oltre le linee armi e istruzioni ai gruppi partigiani che si vanno formando alle spalle dei tedeschi. È la missione nella quale perderà la vita, il gesto nel quale si consuma un percorso di maturazione che la guerra aveva accelerato in modo imprevedibile.
La diserzione è dunque la rottura con l’equivoco monarchico ed è il gesto attraverso il quale l’ufficiale diventa partigiano, e consuma una cesura che nel romanzo si esprime attraverso vari incontri: il rapporto di amicizia che Giaime, in viaggio verso Brindisi, instaura con Federico, il militare segnato dall’esempio del suo comandante, rimasto a combattere con i partigiani jugoslavi, e disposto a sacrificare i suoi progetti di vita per continuare la lotta, il gruppo di giovani comunisti napoletani con cui apre il dialogo sulle prospettive future, sia, infine, i monologhi interiori del protagonista, nei quali compaiono altri due nomi di disertori illustri, uno reale, il Carlo Pisacane di cui Pintor aveva curato per Einaudi l’edizione del Saggio su la rivoluzione (1942), e uno immaginario, il Frederic Henry protagonista di Addio alle armi, opera emblematica di quella letteratura americana in cui lo stesso Pintor, recensendo nel 1943 Americana, l’antologia curata da Elio Vittorini, aveva riconosciuto una possibile patria intellettuale, distante dalla stagnante aria del regime moribondo.
In Doppio diario, pubblicato da Einaudi nel 1975, si legge una lapidaria annotazione: “l’azione è uscire dalla solitudine”. Non si trattava certo di solitudine umana, ché anzi la breve vita di Giaime Pintor fu densa di amicizie, amori e affetti familiari, ma della solitudine intellettuale e politica che sarebbe potuta scaturire da un atteggiamento passivo nei confronti del dramma che l’Italia stava attraversando. Senza l’azione, il mondo a suo tempo conosciuto e amato si sarebbe dissolto irreversibilmente e con esso le ragioni della letteratura coltivata con intensa passione: con il suo romanzo, Carlo Ferrucci restituisce a una lettura più piana, priva di retorica ma non di emozioni, l’esplorazione delle ragioni di una scelta estrema, che ha rappresentato un punto di riferimento politico e ideale essenziale per le generazioni che si sono succedute nel tempo, ma che ha pur sempre segnato la sorte di un ragazzo poco più che ventenne, innamorato della vita, delle donne e della poesia.
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