Era il 29 marzo 1993. Era nevicato molto nei giorni precedenti e i cetnici erano sulle montagne intorno alla città. La notte prima era arrivato un convoglio di aiuti umanitari dell’Unhcr che ci aveva dato la speranza che la comunità internazionale avrebbe fatto qualcosa per impedire l’entrata dei cetnici a Srebrenica. Mi ricordo quella mattina. La città era gremita da decine di migliaia di persone che speravano di potersi arrampicare sui camion dell’Unhcr e trovare così la salvezza da quell’inferno dove o si moriva letteralmente di fame oppure si era bersaglio dei cetnici che sparavano e bombardavano dalle montagne. Mia madre, mia sorella e io siamo stati tra i fortunati che sono riusciti ad arrampicarsi su quei camion che ci hanno poi trasportati a Tuzla.
L’arrivo a Tuzla è stato un ritorno alla civiltà. Non dovevamo più usare le candele, c’era l’elettricità e le lampadine funzionavano. Potevamo guardare la televisione e le notizie, con tutta la nostra attenzione rivolta a cosa succedeva a Srebrenica. Poco dopo, il 16 aprile 1993, Srebrenica veniva dichiarata “Zona protetta” dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e questo per noi e per tante altre famiglie di Srebrenica significò la speranza di ritornare, un giorno, a essere una famiglia felice.
Attraverso la Croce Rossa abbiamo iniziato a ricevere delle lettere da mio padre e quando funzionavano i collegamenti radio riuscivamo a sentirci. Erano chiacchierate brevi, ma che sembravano lunghissime, dove riuscivamo a scambiarci le informazioni più importanti e lui ci chiedeva come stavamo, se ascoltavamo la mamma e se eravamo bravi a scuola. Alla fine chiudeva sempre dicendo che questa follia che si chiama guerra prima o poi sarebbe finita e che saremmo ritornati presto a stare insieme.
A luglio del 1995, quando la testa della colonna della “Marcia della morte” è riuscita ad arrivare nei territori liberi, abbiamo saputo che purtroppo mio padre era stato catturato. Speravamo che fosse stato registrato come prigioniero dalla Croce Rossa e che prima o poi sarebbe ritornato con uno dei vari scambi di prigionieri. Con il passare del tempo la speranza che ritornasse vivo si è trasformata nella speranza di ritrovare i suoi resti. Abbiamo poi saputo che dopo gli attacchi serbi alla colonna della “Marcia della morte” si era nascosto nei boschi per sfuggire alla caccia all’uomo messa in atto dalla Polizia (Mup) e dall’Esercito (Vrs) della Republika Srpska e aveva deciso di attraversare il fiume Drina per consegnarsi come rifugiato in Serbia, nella speranza di avere più chance di sopravvivere.È stato catturato dalla Polizia di frontiera della Serbia, che lo ha arrestato per essere entrato illegalmente e senza documenti. Il 31 luglio 1995, alle 14:10, Risto Šeovac, comandante della Stazione di transito frontaliero di Bajina Bašta, ha consegnato mio padre, sul ponte di Ljubovija, ai colleghi serbo-bosniaci Pero Milic e Dragan Vasiljevic, che hanno redatto un verbale e poi lo hanno trasportato e consegnato a Miro Jankovic, comandante della Polizia militare della Brigata Bratunac dell’Esercito della Republika Srpska. Sono riuscito a ricostruire il destino di mio padre e a identificare le persone coinvolte dopo anni di ricerche. Ho sporto denuncia penale, ma il tribunale ritiene che oltre ai verbali scritti non ci siano sufficienti prove per avviare un procedimento.
Ho cercato e ho avuto l’opportunità di incontrare Pero Milic. Volevo guardarlo negli occhi e chiedergli che fine avesse fatto mio padre. Dirgli che era un insegnante, che aveva insegnato a centinaia di bambini a leggere e a scrivere e che per lui non era importante la nazionalità dei suoi alunni, ma che potessero dire con orgoglio di essere andati a scuola da lui.
Ho detto a Pero Milic che è stata la sfortuna a fargli incontrare mio padre, che sarebbe potuto toccare a chiunque altro, ma che è toccato a lui. Gli ho detto che né lui né mio padre potevano decidere di cominciare o fermare la guerra, però potevano decidere se in questa guerra sarebbero rimasti umani o se sarebbero diventati dei criminal ...[continua]
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