La prima volta che andai a Firenze a intervistare Michele Ranchetti, non ero ancora entrato nella casa che mi chiese: “Come sta Giorgio?”. Io sapevo solo che era stato suo professore all’Università di Firenze, dove Giorgio si era laureato con una tesi sul Guicciardini, ma rimasi sorpreso che si ricordasse così di un suo studente di più di vent’anni prima. E non solo lo ricordava, ma sapeva delle sue vicissitudini e anche che collaborava alla rivista. Mi disse che era stato uno degli studenti più intelligenti che avesse avuto.
Giorgio era balbuziente. Un insegnante che l’aveva incrociato alle medie inferiori, ci disse che una balbuzie così non l’aveva mai incontrata. Se si incantava alla lavagna non c’era modo che si sbloccasse. Con gli anni il difetto era quasi sparito, ma probabilmente il danno dell’insicurezza ormai era fatto e una delle cure si sa quale può essere. Quando l’abbiamo incontrato noi andava in giro a mettere la pubblicità nelle buche delle lettere, la qual cosa non poteva non colpire chi poi veniva a conoscenza della sua cultura umanistica. Quella musicale poi, a detta di esperti, era di valore assoluto. Gli era venuta dal padre, medico condotto di una delle nostre vallate, la cui discoteca, di lirica in particolare, si diceva unica in Italia insieme a quella bolognese di Bongiovanni, il titolare del famoso negozio di musica classica di via Indipendenza.
Sì, Giorgio era un balbuziente dall’orecchio assoluto. Un giorno sul Corso lo fermò un signore per salutarlo e sentii che gli chiedeva: “E la musica?”, e lui a bofonchiare: “Niente, niente”. Poi Giorgio mi disse che era un maestro di musica molto rinomato. Ma anche la storia lo appassionava e quindi la politica. I suoi giudizi, di non più di tre o quattro parole, e spesso trovando nel passato gli esempi del presente, erano micidiali, ma li diceva quasi “passando di lì”. Amava le discussioni, ma da spettatore e il tifo lo riservava solo per le partite dell’Inter. Era incapace di astio politico e non sapeva cosa fossero acredine e risentimento.
È stato tra i fondatori della rivista e per qualche anno “lavorò” da noi. In particolare sbobinava le interviste e i suoi commenti per chi, poi, doveva fare l’editing, erano sempre preziosi. Piano piano riuscì a uscire dalla dipendenza. Trovò poi un lavoro “vero” nella segreteria della facoltà di lingue dell’Università a Forlì e lì fu apprezzato da tutti per il senso del dovere e la disponibilità a far di più se necessario. Lo amava, quel lavoro, anche perché, forse, gli garantiva una socialità tranquilla. Divenne amico di alcuni insegnanti, in particolare dei “due inglesi”, anche se non poteva accompagnarli nelle loro scorribande serali. (La scomparsa di entrambi, avvenuta di recente, lo aveva colpito molto). E comunque l’altro versante della sua personalità e della sua vita rimaneva sempre nell’ombra. C’è capitato di incontrare degli studenti, che l’avevano conosciuto e stimato come un “bidello” sempre disponibile, che restavano stupefatti al racconto dell’“altro Giorgio”.
Di questo probabilmente lui ha sofferto, ma in silenzio e rassegnato. L’aveva passata brutta e si accontentava. Tant’è che ha sempre continuato a prendere l’Antabuse, anche dopo tanti anni, per il terrore, diceva, di far danni al lavoro in caso di ricaduta. E però, se capitava qualche riconoscimento, gli faceva piacere. Un giorno venne in sede tutto contento perché don Sergio, un amico della rivista che insegnava religione al liceo, l’aveva chiamato a fare una lezione su “Wagner e il romanticismo”. Poi però, col passare delle settimane, della cosa non parlò più. Glielo chiesi e lui disse: “Sì, sì”, ma capii che non ne voleva parlare. Com’era andata lo raccontò don Sergio. In piedi davanti alla cattedra dove era stato approntato il giradischi, Giorgio aveva parlato sottovoce dando le spalle ai ragazzi, e don Sergio, lì accanto, aveva dovuto fare una specie di consecutiva.
In trent’anni di amicizia non mi sono azzardato a chiedergli se avesse mai avuto una ragazza.
Negli ultimi tempi si era intristito. Spesso passava da noi finito il lavoro e vederlo arrancare coi suoi centoventi chili sulla vecchia bicicletta da donna, d’estate e d’inverno, carica di sacchetti della spesa, cioè di libri e cd appena acquistati, era una pena (la possibilità di guidare un’auto se l’era giocata da ragazzo). Ci lasciava regolarmente qualche libro. Gli piacevano le storie complicate, quelle che ti fanno capire che le cose, nella storia e nella vita, non sono mai semplici e lineari. L’ultimo che ci aveva lasciato era il saggio sui “tre rumeni”, tutti e tre esuli a Parigi e tutti e tre “guardie di ferro” in gioventù: Ionesco, Cioran ed Eliade: “Leggetelo, è molto bello”.
Ultimamente aveva provato a viaggiare, da solo. Era stato a Napoli e al ritorno ci raccontò tutti i posti importanti in cui era stato e di cui io non sapevo quasi nulla. Avrebbe potuto far la guida turistica di molte città italiane, senza esserci mai stato. Da “giovani” avevamo detto di fare insieme qualche viaggio, per farmi imparare qualcosa, o di portarmi alla Scala, dove lui era stato da piccolo col padre e poi alcune volte coi loggionisti organizzati di Reggio Emilia. Non ne abbiamo mai fatto nulla. Era con noi a Strasburgo per la commemorazione di Alex Langer e ai funerali di Gino Bianco e di Michele Ranchetti. Quelli erano appuntamenti cui non voleva mancare. Di ritorno da Napoli era contento, perché “si era mosso” e ne programmava altri, di viaggi, ma sono arrivati i problemi di salute. Aveva due caviglie inguardabili, forse si era demoralizzato. Un giorno alla domanda: “Cosa c’è che non va?”, sussurrò: “C’è che sono una nullità”.
Era una “persona candida” come l’ha definito un’amica comune.
Molti anni fa Adriano Sofri, a Forlì per un’iniziativa, l’aveva incrociato e avevano parlato di lirica (infatti poi Giorgio gli aveva fatto avere non so quale interpretazione della Norma, le importanti le conosceva tutte) e Adriano, incuriosito, volle sapere qualcosa della sua storia, al che, poi, mi chiese se l’avessi intervistato. Di fronte al mio imbarazzo per non averci mai pensato neanche lontanamente, aggiunse: “Ma se non intervisti uno come lui...”.
Non l’avevo mai detto a Giorgio e gliel’ho raccontato, in ospedale nell’ultima visita, per fargli piacere. E abbiamo parlato anche del suo “ritorno” a Una città una volta in pensione. Ma era triste, abbattuto, malgrado gli evidenti miglioramenti (era uscito dalla terapia intensiva, mangiava da solo). Disse ancora che voleva tornare nella sua casa. Questa, poi, era un minuscolo appartamento in cui si faceva fatica a rigirarsi, fra libri e cd, tant’è che Tatiana, una gentile signora ucraina che andava a far le pulizie, lo cacciava da casa perché lì, in due, era difficile muoversi. Voleva tornare nel suo rifugio.
No, non chiedeva molto. È morto la notte di due giorni dopo, l’aorta s’era rotta di nuovo.
Certe ingiustizie lasciano annichiliti.
Addio, carissimo Giorgio. Sì, quell’intervista l’avremmo dovuta fare e sarebbe stata molto bella.
Gianni Saporetti
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in memoria
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Articolo di Gianni Saporetti
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