Anche la critica letteraria, anche quella che lavora con strumenti di filologia storica e analisi degli stili, a volte entra a far parte della storia del pensiero. Nel Novecento uno dei casi più eminenti e suggestivi è quello di un libro come Mimesis di Erich Auerbach (1892-1957), sottotitolo: “La rappresentazione della realtà da Omero a Virginia Woolf”. Il titolo allude appunto al rapporto “mimetico” necessario a ogni procedimento realistico. Ma la realtà non è mai esattamente la stessa nel corso della storia e nella tradizione letteraria occidentale. Il primo interesse di un grande filologo e critico come Auerbach fu quello di studiare, nel succedersi storico degli stili, i mutamenti di prospettiva e di punti di vista, il modo in cui gli scrittori europei hanno selezionato e ordinato gli elementi della realtà più adatti a rappresentarla. Ogni stile è infatti una visione del mondo, esprime una filosofia della realtà e della vita umana.
Il confronto fra i due fondamentali archetipi di stile, quello classicistico di origine greco-latina e quello giudaico-cristiano, appare nel primo capitolo di Mimesis, con l’analisi che Auerbach compie di un brano dell’Odissea, accostato al famoso episodio biblico del sacrificio di Isacco, che Dio chiede ad Abramo come testimonianza di fede. Nel canto IX dell’Odissea, Euriclea, massaia e vecchia nutrice di Ulisse, riconosce l’eroe tornato di nascosto a Itaca. Mentre gli sta lavando i piedi, primo dovere di ogni ospite verso i viandanti, Euriclea scorge una cicatrice che l’eroe aveva fin da giovane alla gamba. Vorrebbe gridare di gioia, ma Ulisse le impone di tacere e di non rivelare niente. La narrazione epica di Omero, dice Auerbach, procede con minuziosa lentezza. Nulla di ciò che viene rappresentato e descritto è lasciato nell’ombra. Lo stile omerico presenta “le cose in una forma compiuta ed esatta e nelle loro relazioni di spazio e di tempo”. Ciò che Omero racconta è sempre e soltanto presente, e occupa completamente sia la scena che l’attenzione dello spettatore. È questo, come capirono Goethe e Schiller in uno scambio epistolare, il procedimento di Omero e “la legge generale della poesia epica”. Si tratta di una “tecnica del ritardare”, che è dovuta soprattutto alla “necessità dello stile omerico di non lasciare nell’ombra o non finito nulla di quanto viene accennato”. Raccontando l’origine di quella cicatrice di Ulisse, Omero dà “a tutto ciò che compare una forma sensibile. Tutto ciò che accade nella narrazione assume forma chiaramente definita”.
Ma le caratteristiche dello stile omerico appaiono ancora più chiaramente se messe a confronto con il racconto biblico del sacrificio di Isacco in Genesi 22, quando Dio mette alla prova la fede di Abramo: “gli disse: -Abramo! E questi rispose: -Sono qui!”. Così osserva Auerbach: “Già questo inizio, se pensiamo a Omero, ci sorprende. Dove si trovano i due interlocutori? Non viene detto. Ma il lettore sa benissimo che non si trovano sempre nello stesso luogo e che uno di loro, Dio, può venire da dovunque e irrompere sulla terra da qualsiasi altezza o profondità per parlare ad Abramo”. Il Dio del popolo ebraico, “Dio dei deserti, non era fissato né in una figura né in una dimora (...) La concezione che gli ebrei avevano di Dio non è tanto la causa, quanto piuttosto il sintomo del loro modo di vedere e di rappresentare”. Anche la risposta di Abramo non significa soltanto “eccomi, sono qui”, quanto anche “guardami”, “io ti ascolto”, senza significare un luogo reale. La conclusione del confronto è questa: “non è facile immaginare contrasti stilistici maggiori di quelli che ci sono fra questi due testi, ugualmente antichi e epici. Da una parte fenomeni a tutto tondo, ugualmente illuminati, delimitati nel tempo e nello spazio, collegati fra loro senza lacune [...] con agio e senza eccessiva tensione. Dall’altra parte, dei fenomeni viene manifestato solo quel tanto che importa ai fini dell’azione, il resto rimane nel buio; vengono accentuati soltanto i punti culminanti e decisivi dell’azione, le altre cose non hanno vera esistenza, tempo e luogo sono indefiniti e andrebbero chiariti [...]. Dio, che non è, come Zeus, circoscrivibile nella sua presenza, appare sempre e soltanto con ‘qualcosa’ di lui, sprofonda sempre nelle lontananze”.
Inoltre, mentre “nei poemi omerici la vita si svolge soltanto nella cerchia signorile [...] nelle storie dei Patriarchi del Vecchio Testamento [...] il quadro sociale è molto meno stabile, non vi si sente nessuna struttura di classe [...] il popolo spesso ha una sua parte negli avvenimenti [...] e sembra che le origini delle profezie siano nell’indomabile spontaneità politico-religiosa del popolo”.
Da queste osservazioni Auerbach arriva infine a un’ulteriore e fondamentale deduzione. In Omero domina incontrastato lo “stile sublime”, in cui si narra la vicenda degli eroi, mentre nello stile biblico vengono anche ammessi “il realismo quotidiano” e il “realismo familiare” e la rappresentazione della vita quotidiana. Sono due modi opposti all’origine di come la realtà è stata rappresentata nella letteratura europea. Così, nel libro di Auerbach lo stile di rappresentazione della realtà si biforca in due modelli: da un lato “la distinzione degli stili”, lo stile alto separato dallo stile basso; dall’altro “la mescolanza degli stili”, per cui anche la serietà morale della tragedia compare nella comune quotidianità dello stile basso. Nel corso di venti secoli di storia letteraria europea la comune realtà quotidiana in cui vivono tutte le classi sociali prende sempre più spazio. Continuando a studiare da vicino, nelle strutture del linguaggio, i modi di rappresentazione della realtà, Auerbach non parte da un presupposto teorico generale, ma constata i mutamenti storici, sociali e culturali che si succedono nelle varie epoche.
Studioso di Dante, forse il maggiore del Novecento, Auerbach, come Dante, fu costretto all’esilio dalla sua Germania in quanto ebreo. Insegnò quindi filologia e critica a Istanbul per più di dieci anni e si trasferì più tardi negli Stati Uniti, nelle Università prima di Princeton, poi di Yale. Ma è a Istanbul che scrisse Mimesis (1946, Einaudi, 1957), il suo capolavoro saggistico, inarrivabile non solo per erudizione e dottrina, ma anche per eccezionale capacità di sintesi e apertura di visione. Le sue analisi stilistiche, partendo dal confronto fra stile omerico e stile biblico e evangelico, attraversano il Medioevo, che culmina in Dante; passa poi alla grande svolta che fonda la modernità europea con Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, Molière; e arriva infine al romanzo moderno, il genere letterario più nuovo e dominante, con i suoi tipici protagonisti, i francesi Rousseau, Stendhal, Balzac, Flaubert, Zola, fino alla rivoluzione formale novecentesca di Marcel Proust, Virginia Woolf, James Joyce.
Non potendo seguire Auerbach capitolo per capitolo, autore per autore, andiamo alla morale della sua favola critica. Riassumendo in una formula, è la distinzione fra stile alto con cui si parla del destino di eroi aristocratici e stile umile e basso con cui si può parlare di chiunque nella comune vita quotidiana. Nell’antichità greco-latina e nella poetica del classicismo l’umile realtà quotidiana poteva essere trattata solo come comica e leggera, non seria e tragica. È anzitutto il romanzo moderno dell’Ottocento che infrange definitivamente tale distinzione e barriera. Il realismo non comico, ma serio, porta perciò a una “democratizzazione” delle esperienze umane. Anche ciò che nel classicismo era considerato poco significativo o frivolo, diventa e può diventare importante, magari decisivo, con il realismo del romanzo, che partendo dalla Francia e dall’Inghilterra arriverà al più alto significato morale, tragico, religioso in Dostoevskij e Tolstoj.
Dice Auerbach: “Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica, o addirittura tragica, persone comuni nella vita quotidiana, infransero la regola classica della separazione degli stili, secondo la quale la realtà quotidiana e pratica doveva avere il suo posto nella letteratura soltanto entro la cornice di uno stile umile e medio, vale a dire sotto forma grottesca e comica oppure di divertimento leggero”.
Ma un punto di svolta radicale si era già avuto in Europa tre secoli prima, nel tardo Cinquecento, con la rivoluzione individualistica di Montaigne, autore di una autobiografia intitolata Saggi. Rappresentando se stesso con fedeltà realistica, anche nella sua vita di tutti i giorni e nell’altalena di umori e pensieri, nelle sue debolezze, più che nelle sue virtù, Montaigne apre la strada allo stile medio e umile, mescolando serietà e leggerezza.
Il capitolo che Auerbach dedica a Montaigne in Mimesis è uno dei più belli, oltre a essere la pietra angolare di tutta la sua costruzione critica e storica. Il capitolo si intitola non a caso “L’umana condizione”. Benché Montaigne fosse “un gran signore, rispettato e influente”, l’immagine che ci dà di sé è quella di un tutto. E la vita come un tutto non può escludere niente perché, dice Auerbach, “ogni specializzazione falsifica l’immagine morale della vita. Il metodo adottato da Montaigne nello scrivere i suoi saggi è quello di fare della propria vita qualunque come totalità il punto di partenza di tutta la filosofia morale e dell’indagine sull’umana condizione”.
Dunque già in Montaigne lo stile non è né alto né basso, né troppo serio né quasi insignificante. Ciò che conta è “la piena coscienza presente della propria esistenza nel suo insieme”.
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