Il 25 gennaio si è svolto presso il Goethe Institut di Torino un seminario internazionale dal titolo “Dittatura, guerra e memoria collettiva”.
Pubblichiamo l’intervento, intitolato “In memoria di Auschwitz”, di Christoph Miething, docente di Letteratura Romanza presso l’Università di Münster e direttore del centro di ricerca Romania Judaica. A seguire, la relazione di Dario Calimani.

Alla capitale di un paese viene affidato il compito di rappresentare il paese stesso. Spazio e tempo di una comunità politica e culturale possono in esso prendere forma. Da questa consapevolezza è scaturita la decisione del parlamento tedesco di erigere un monumento in memoria dello sterminio degli Ebrei d’Europa nel centro geografico e simbolico di Berlino, nel cuore della metropoli della Germania riunificata ove verrà realizzato il progetto dell’architetto americano Peter Eisenmann. Questo prevede che, su un’aerea della grandezza di un campo di calcio, vengano eretti 4000 pilastri di cemento alti sino a 7,5 metri ad una distanza di 92 cm l’uno dall’altro. I pilastri rappresenteranno un infinito mare di stele funerarie. Ciò che il nome “Auschwitz” simboleggia diverrà, grazie a queste, un monito sempre presente. Le stele rappresentano il presente della morte. Ricordano la catastrofe causata dal regime nazista. La decisione del Parlamento colloca una necropoli simbolica al centro dell’immagine che la nazione tedesca ha di se stessa. Il quesito che ci si pone è come valutare questa decisione, questa simbologia ed il rapporto con il proprio passato che ne emerge.
Dal discorso dell’allora Presidente Federale Weizsäcker, tenutosi nel corso delle celebrazioni del 40° anniversario della fine della seconda guerra mondiale l’8 maggio 1985, esiste in Germania un consenso pubblico secondo cui il ricordo di Auschwitz è un aspetto fondamentale della coscienza tedesca. Lo scorso anno l’attuale Ministro degli Esteri Joschka Fischer ha sottolineato nuovamente che la memoria storica tedesca, anche in futuro, dovrà rimanere legata ad Auschwitz.
Anche i presidenti Herzog e Rau, successori di Weizsäcker, hanno in varie occasioni sostenuto la necessità di una piena assunzione di responsabilità nei confronti della storia, conferendo a tale affermazione grande credibilità non solo per il loro ruolo di politici ma anche in quanto privati cittadini. Si sono opposti a qualunque richiesta di “chiudere con il passato”. Tale richiesta è particolarmente diffusa tra la popolazione; l’espressione tedesca corrispondente ha assunto una precisa connotazione politica e caratterizza il cosiddetto comportamento “politicamente corretto” di coloro che si dichiarano “a favore della memoria”. I partiti rappresentati in Parlamento abbracciano però questa posizione. Va comunque aggiunto che la richiesta di mantenere viva la memoria della barbarie nazista è chiaramente una tesi avanzata dalla sinistra per la quale il ricordo è parte della sua coscienza critica. La destra nazional-conservatrice, d’altro lato, auspica un autoritratto positivo. Essi ritengono che la memoria della Shoah ostacoli il ritorno alla normalità in Germania.
Uno dei maggiori scrittori del nostro paese, il romanziere Martin Walser, appartiene ai pochi che sin dall’inizio si sono apertamente dichiarati contro la cancellazione della memoria della sciagura nazista e cioè molto prima della proiezione del film americano “Olocausto” del 1978; film che notoriamente ha dato avvio alla trattazione di questo tema in tutto il mondo, contribuendo ad evitare che esso venisse rimosso sia in Israele che in Germania e che ha per la prima volta creato consapevolezza negli americani relativamente a questo tema. Citiamo solo alcune date: fin dal 1962 nella sua pubblicazione Vom erwarteten Theater Walser esortò a non mantenere il silenzio sul periodo dal ’33 al ’45. Pubblicò saggi sui processi di Auschwitz del 1965. Nel 1977 scrisse: “Dobbiamo tenere aperta la ferita chiamata Germania” riferendosi alla ferita causata dai crimini perpetrati in nome della Germania. Nel 1989 nella Biblioteca Nazionale Sassone di Dresda rinvenne i diari dello studioso di lingue romanze Viktor Klemperer nei quali era documentata la sua sopravvivenza durante il regime nazista. Walser riuscì a far pubblicare questi diari che riscossero uno straordinario interesse da parte del pubblico. Si può quindi affermare che Walser, in quanto scrittore, rappresenta la summenzionata coscienza critica tedesca. In qualità di rappresentante della stessa, nell’Ottobre 1998, gli venne conferito il più prestigioso premio culturale tedesco, il Premio per la Pace degli Editori Tedeschi (Friedenspreis des Deutschen Buchhandels). Come vuole la tradizione, in occasione della consegna di questo premio Walser tenne un discorso nella chiesa di Francoforte di S. Paolo, ossia nello stesso luogo in cui nel 1848 fu compiuto un primo tentativo di creare una comunità democratica in Germania.
Con il suo discorso Walser colse l’occasione per prendere posizione relativamente al problema di come un tedesco debba convivere con la propria storia ed in particolare con il ricordo di Auschwitz. La sua presa di posizione provocò una forte reazione da parte dell’allora presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, Ignaz Bubiz. Egli accusò Walser di “incendio doloso morale”, lo associò agli estremisti di destra, gettando su di lui il sospetto di antisemitismo. Questa reazione scatenò d’altro canto un dibattito di cui si occupò l’opinione pubblica tedesca per mesi e che nel frattempo non solo venne definito come “il dibattito Walser-Bubiz”, ma entrò anche a far parte della più recente storia tedesca. A ragione veduta lo si annovera tra le controversie che si sono avvicendate in Germania ad iniziare dalle “dispute tra storici” della fine degli anni ‘70 e dal dibattito sul libro di Daniel Goldhagen Hitler’s willing executioners del 1996, delle quali fa parte la lunga discussione sul monumento in memoria dell’Olocausto della città di Berlino.
Sulla base di una conoscenza precisa delle posizioni che si sono consolidate nel corso del suddetto dibattito al quale hanno preso parte un gran numero di personalità pubbliche e di privati attraverso i mass-media, sono pienamente consapevole che la riproduzione del contenuto del discorso di Martin Walser presupponga una presa di posizione da parte mia. Man mano che il dibattito si trasformava in una controversia, si formarono un’alternativa pro-Walser ed una pro-Bubiz, che nuocevano sia alla precisione che alla differenziazione delle argomentazioni sostenute. Vorrei quindi chiarire anticipatamente che il riferimento a tale dibattito ha lo scopo di illustrare le difficoltà di relazione con la storia spiccatamente tedesche. Mi pongo euristicamente quale osservatore esterno della Germania. Ma in quanto tedesco voglio aggiungere che vivo ed agisco nella convinzione che dopo Auschwitz ci possa essere una coscienza tedesca completa solo con riferimento al destino degli ebrei.
Condivido tale convinzione con Martin Walser. Ignaz Bubiz contestò a Walser quella convinzione facendogli un grave torto soprattutto in considerazione della sua vita. Nel discorso pronunciato nella chiesa di S.Paolo l’argomento centrale di Walser è che la ritualizzazione del ricordo di Auschwitz induce ad un abuso politico e morale. Egli utilizza la parola “strumentalizzazione” ricorrentemente in questo contesto. Walser parla di “una ribellione interna alla presentazione continua della nostra vergogna. Invece di essere grato alla presentazione inesorabile della nostra vergogna comincio a guardare altrove”. Per questo motivo per lui anche il futuro monumento alla memoria dell’Olocausto di Berlino rappresenta una fatalità. “Nella discussione relativa al monumento in memoria dell’Olocausto di Berlino i posteri potranno leggere ciò che causano le persone che si sentono responsabili per la coscienza di altri. La cementificazione del centro della capitale con un incubo delle dimensioni di un campo di calcio . La monumentalizzazione della vergogna”.
Walser ha contrapposto la necessaria libertà di coscienza contro la ritualizzazione del ricordo da lui criticata. Con ciò egli intende che è la coscienza personale di ogni tedesco ad avere l’obbligo di ricordare -e proprio questo è stato taciuto dai critici di Walser che per questo motivo spesso diventarono suoi oppositori. Solo se i tedeschi, se possibile ciascuno di loro, riconoscono la necessità del ricordo per libera convinzione morale, anche la memoria della collettività diventerà luogo dell’imperativo morale. La convinzione personale, non pubblica ma privata, giustifica anche la morale collettiva. La ritualizzazione invece rischia di distruggere la sostanza della morale e questo pericolo è tanto più grande quanto più viene strumentalizzato politicamente il rituale della memoria di Auschwitz. Il sunto del discorso di Walser semplifica la differenziazione delle sue affermazioni e mette in ombra il ductus specifico del suo discorso. Egli gli aveva conferito il titolo di Esperienze nel corso della stesura di un discorso domenicale.
Dietro al riflesso retorico e vagamente borghese si nasconde un gesto che ha reso il discorso celebrativo decisamente provocatorio e a tratti un’immagine personale suggestiva. Questo ha pregiudicato la chiarezza del contenuto delle sue affermazioni. Sì, questo ductus conferisce al discorso un’ambivalenza che rimane anche dopo una lettura ripetuta; un’ambivalenza che formalmente può essere descritta come un’oscillazione tra discorso pubblico e discorso privato.
Questa ambivalenza formale si ripercuote direttamente sul contenuto del discorso di Walser rendendolo problematico.
La sua critica alla ritualizzazione della memoria e la sua richiesta di verifica personale dell’imperativo morale gettano ombra sul fatto che possa esistere una coscienza collettiva senza ritualizzazione e che proprio la decisione libera e personale nei confronti della morale implichi l’obbligo di cercare forme rituali appropriate. Il discorso di Walser è stato definito come un documento di etica del pensiero protestante.
Questo colpisce il bersaglio e, generalizzando, si può aggiungere che Walser qui incarna un problema prettamente tedesco. E’ la difficoltà del popolo tedesco di utilizzare pubblicamente i simboli. In nessun altro luogo si incontrano difficoltà tanto palesi come con quei simboli che costituiscono il fulcro di tutte le comunità democratiche moderne. E’ l’idea della nazione, sono le forme di rappresentazione dello stato nazionale. La vita di Walser può essere descritta come la ricerca della forma appropriata di essere tedeschi. Il fatto che questa ricerca non abbia finora portato ad alcun esito generalizzabile, è stato evidenziato dallo stesso Walser nel suo discorso nella chiesa di S. Paolo di Francoforte. Va comunque aggiunto che si è dimostrato incapace di pronunciare un discorso pubblico adeguato al luogo.
Si tratta di ben più che la sola individualità di uno scrittore. Si tratta precisamente di verificare se in Germania attualmente sussista la possibilità di dichiararsi pubblicamente a favore della propria nazionalità senza peraltro cadere vittima dell’alternativa secondo la quale chi sostiene di essere orgoglioso di essere tedesco viene sospettato di appartenere alla destra estremista, e chi dice “ho alcune difficoltà nel riconoscermi come tedesco” viene stigmatizzato quale potenziale traditore della patria. Come ben si sa, la riunificazione tedesca è stata contestata dagli intellettuali tedeschi: si pensi a Günter Grass che, nel 1990, affermò che chi cerca risposte alla questione tedesca deve necessariamente comprendere Auschwitz ed aggiunse “il luogo del terrore come esempio del trauma che permane esclude una futura Germania riunificata”. Walser, al contrario, era un sostenitore della riunificazione e lo dichiarava pubblicamente. Attualmente alcuni suoi critici gli hanno però contestato di voler ritornare al nazionalismo e proprio per questo di aver parlato di “guardare altrove” e di rimuovere la memoria di Auschwitz nella chiesa di S. Paolo. Walser, dal canto suo, aveva apostrofato la memoria ritualizzata con “clava morale” volendo così colpire quegli intellettuali tedeschi per i quali la dichiarazione pubblica di essere tedeschi all’interno di uno stato nazionale tedesco e di volerlo essere, equivaleva ad un tradimento della propria identità politica e morale. E’ assodato che colui che si definisce tedesco viene sospettato immancabilmente di nazionalismo dai mass-media del nostro paese che si definiscono liberali e critici. Sino ad oggi in Germania non si è ancora raggiunto un consenso su come ci si debba rapportare alla propria identità collettiva e quale forma di coscienza nazionale si debba adottare. Io stesso appartengo ad una generazione che sin dall’inizio degli anni ‘60 è orientata verso l’Europa. Ricordo il senso di irritazione provata quando da studente, nel corso di soggiorni in Inghilterra e in Francia, mi è stato duramente rimproverato il fatto di essere tedesco.
Non è passato molto tempo da quando ci venne rivolto proprio da quei paesi il rimprovero di utilizzare l’idea dell’unificazione europea solo per dare vita ad una nuova egemonia tedesca. A queste accuse posso rispondere affermando di essere contro ogni forma di egemonia nazionale in Europa; inoltre la speranza di una comunità politica in Europa che funzioni appartiene ai miei ideali politici. Posso altresì affermare che nel mio paese vi sono molti intellettuali che condividono questa mia speranza. Nel frattempo ho comunque imparato che occorre tener conto della tradizione della coscienza nazionale. La situazione tedesca vista dall’esterno è contraddittoria proprio perché da un lato si rimprovera ai tedeschi che la mancanza di consenso nella coscienza nazionale tedesca sia la prova di una mancanza di normalità tedesca, e dall’altro perché le articolazioni positive di una tale coscienza vengono considerate nuove rivendicazioni di potere.
Per quanto riguarda la memoria collettiva in Germania riporto a seguire brevi riflessioni. A prescindere dalla sua posizione geopolitica, dalla sua forza economica e anche dal suo peso politico, la Germania è dal punto di vista puramente demografico, dati i circa 80 milioni di abitanti, una forza determinante in Europa. Poiché sono convinto che la storia della nostra civilizzazione sia caratterizzata da una tracotanza della forza -basata sul monoteismo- spero che in Europa proprio noi tedeschi che siamo stati colpiti con tanta veemenza da tale tracotanza vivremo nella consapevolezza di questo pericolo. Per questo motivo il ricordo di Auschwitz mi sembra essere parte integrante della nostra ragione di stato.
Allo stesso tempo però vedo nella memoria di Auschwitz una serie di pericoli. Proverò a citarne i principali.

1. In Germania vi è una tradizione di odio di se stessi, una tendenza all’auto-accusa che è stata giustamente definita anche da Walser “nazionalismo negativo”. La memoria della Shoah non deve divenire strumento di auto-mortificazione. E’ importante affermare chiaramente che questo rappresenta un pericolo. L’auto-dannazione e il sopravvalutarsi non sono poi così distanti l’uno dall’altro. Probabilmente sono le due facce di un’unica medaglia. In ogni caso entrambi sono pericolosi irrazionalismi nella coscienza di sé collettiva.

2. Per quanto inconcepibile ed incommensurabile possa essere ciò che Auschwitz denota, la sua memoria deve trovare una giusta misura, forse proprio alla luce della sua imperscrutabilità. Sarebbe irragionevole e spaventoso se questo ricordo mettesse in ombra tutti gli altri contenuti della memoria collettiva. Ci si occupa probabilmente troppo del tema Auschwitz. Certo è che questa argomentazione logica diventa problematica in relazione al trauma concreto. E’ altresì problematica l’affermazione intenzionale secondo cui il trauma continuerà a produrre effetti nel futuro. Nella memoria dei tedeschi la Shoah deve trovare una cornice. Se ciò non viene accettato vengono a mancare i presupposti di un discorso razionale e si tratterà invece solo di Mito e Potere. E questo non vale solo per la Germania. Nel complesso, il rapporto con il nome “Auschwitz” è divenuto indicatore della relazione esistente tra il Logo ed il Mito.
3. L’origine storico-culturale -e forse addirittura antropologica- della memoria collettiva, è il ricordo dei morti. Ancora una volta: ricordo dei morti e non degli omicidi. Questa è un’alternativa elementare. Significa che la costruzione temporale che chiamiamo “memoria” deve avere un contenuto positivo. Il ricordo dei morti è un atto solenne.
In questa commemorazione la collettività esprime la propria possibilità di auto-sostegno. Solo chi fa affidamento su se stesso può essere contento e felice. Questa possibilità di auto-sostegno è la premessa perché si possano ricordare anche le catastrofi della propria storia. Ne consegue quindi che la scelta del progetto dell’architetto Eisenmann di costruire una necropoli simbolica nel centro di Berlino è contrassegnata da una profonda ambivalenza. Non faccio mistero del mio timore che la forza espressiva simbolica delle 4000 stele di cemento non porti alla pace bensì al contrario. Ripeto ancora una volta: il ricordo di Auschwitz deve divenire parte della ragione di stato tedesca in vista del futuro e non del passato. Questo ricordo non deve rendere impossibile un auto-sostegno del tedesco.

4. In particolare negli Stati Uniti, dove da sempre si è mirato ad una netta divisione tra “buono” e “cattivo”, “Auschwitz” rappresenta la quintessenza del male assoluto. I tedeschi rivestono quindi attualmente il ruolo di capro espiatorio precedentemente attribuito ad altri. Il pericolo che da questa immagine negativa in Germania si riscontrino atteggiamenti compensatori è inevitabile. Probabilmente è sensato reagire con razionalità fredda ed analitica. D’altro canto va rilevato anche che nel cinema americano, inglese, francese e anche italiano, il malvagio per eccellenza è sempre il nazista.
Questa è una ritualizzazione di un ricordo che ci si augura di dimenticare.

5. Il ricordo di Auschwitz può anche essere considerata un’aggressione. Voglio spiegarlo attraverso la seguente parabola. Se due persone appartenenti a famiglie diverse si incontrano ed uno ricorda all’altro che suo nonno ha assassinato i propri nonni, entrambe dovranno decidere quale importanza attribuire a questo ricordo. Le due persone hanno entrambe la forza di riconoscersi in un futuro comune a prescindere da questo passato oppure no. Se allora colui i cui nonni sono stati assassinati ripete sempre all’altro: “Non devi mai dimenticare che tuo nonno era un omicida, io non lo dimenticherò mai”, e se questa diventa la premessa di tutte le comunicazioni seguenti fra questi interlocutori allora la ripetizione della memoria diventa un’aggressione continuata. Attraverso la ripetizione, infatti, l’interlocutore viene identificato con l’allora omicida a causa del continuo richiamo alla mente dell’omicidio. Sì, il ricordo dell’omicidio trasforma in questo modo la vittima in persecutore poiché riportare alla memoria l’omicidio, alla lunga, diventa omicidio simbolico.

Infine vorrei azzardare l’ipotesi che proprio nel caso della memoria della Shoah il ricordo deve esistere per il bene del futuro. La fase di rivisitazione del passato non si può ancora ritenere conclusa. Nei luoghi più disparati e nelle più diverse istituzioni tedesche il legame con il nazionalsocialismo viene riconosciuto solo in parte, e di conseguenza il processo di allontanamento dal passato non è stato mai completato. Ad esempio, il Senato della mia facoltà, l’Università Wilhelm di Münster in Westfalia ha condannato espressamente solo lo scorso anno i licenziamenti e le diffamazioni compiute dal regime nazista in ambito universitario ed ha avviato delle indagini sullo svolgimento dei fatti. Occorre affermare in maniera molto più generica che in tutto il territorio dell’ex Rdt durante la dittatura socialista non ci si è occupati del destino degli ebrei e si è fatto credere alla popolazione di incarnare una tradizione antifascista. In ultima analisi vorrei esprimere la speranza che lo studio del passato funesto possa servire non tanto a soddisfare il desiderio di una auto-purificazione, quanto ad offrire una vita pacifica e sociale ai cittadini ebrei e non nel mio paese ed in Europa.
Per quanto problematico possa essere il concetto di “normalità” nelle riflessioni sull’attuale coscienza di sé del popolo tedesco, mi auguro di cuore che quella normalità si realizzi così che un giorno le istituzioni ebree nel mio paese non debbano più essere protette dalla polizia. E’ l’augurio che l’antisemitismo possa diventare una entità politica irrilevante. Il fatto che ciò, dopo Hitler, avvenga ancora nel mio paese, mi riempie di tristezza e vergogna.