Qual è il motivo per cui proprio ora Vincenzo Bugliani scrive queste cose? Per parte mia ho sempre diffidato di quelle operazioni impregnate di ansia revisionista che tendono a ridiscutere “in toto” una questione senza salvare nulla. Senza osservare e rispettare gli enigmi. C’è comunque più di un punto oscuro nello scritto di Bugliani, e molte sono le frasi che vanno chiarite. Credo che sia superficiale e riduttivo affrontare don Milani soffermandosi sull’impatto, a volte brutale, che trasmettono i suoi scritti. Consultando i documenti, cercando anche quel che ad una prima analisi può sfuggire, nascosto dalle parole di denuncia sociale, emerge senza dubbio una realtà barbianese molto più stratificata di quella asserita da Bugliani.
Una forte perplessità è suscitata in me da certe frasi, soprattutto quando si appresta a discutere e riconsiderare il ruolo di don Milani come Operatore di Pace. Dice: “Una decina di anni fa, in un periodo in cui m’era parso di poter fare il pacifista, partecipai in un paesino del Mugello a un convegno organizzato da discepoli diretti e indiretti di don Milani, sul tema, più o meno “Don Milani e l’educazione alla pace”. Che rapporto avesse don Milani con la pace non lo capii...”.
Quello che io non riesco a capire, invece, è che cosa significhi “in un periodo in cui mi era parso di potere fare il pacifista”.
Forse perché sono profondamente convinto che, al di là di ogni facile retorica l’essere operatore di pace sia qualcosa che estende il suo ambito anche alla quotidianità più banale, che non ha bisogno di discorsi o convegni e che il sentirsi pacifisti non sia un sentimento che può andare a “periodi”.
Per quanto riguarda poi il rapporto del Priore con la pace, non è certamente possibile pensare che il suo discorso sia meno incisivo o debba godere di minor credito soltanto perché questa parola non ricorre all’interno dei suoi scritti con la stessa frequenza di altre. Da un’elaborazione al computer risulta che il termine usato con maggior frequenza, considerando l’opera milaniana nel suo complesso, è scuola.
Non è superfluo ricordare in questa sede che, di quel convegno che ha suscitato le perplessità di Bugliani esistono gli atti. (“Don Milani e la pace” a cura di Giovanni Catti E.G.A) e che, tra le tante cose interessanti che in quella sede si sono dette c’è la relazione di Antonio Nanni intitolata “Spunti di educazione alla mondialità nell’esperienza pedagogica di don Milani”. Qui si trova, a parere di chi scrive, ben più di uno spunto per vedere quale sia l’approccio milaniano al problema.
Frasi come: “I poveri nella società, così come i lontani nella chiesa sono accomunati dalla stessa forma di emarginazione: l’analfabetismo etico-politico, un analfabetismo della coscienza che rinvia però ad un’espropriazione culturale di cui i poveri ed i lontani sono le vittime. (...)
Da questa profonda convinzione don Milani prende le mosse per aprire la strada al processo di riappropriazione culturale soggettiva e quindi ad una nuova alfabetizzazione etico-politica capace di rimettere in piedi l’uomo sottomesso in modo che possa guardare avanti e puntare in alto.”
Credo che a questo punto si possa affermare, senza eccessivo timore di essere smentiti, che pace e consapevolezza procedono su due binari paralleli e che colui che lavora per dare strumenti a chi non ne ha possa a buon diritto essere chiamato Operatore di Pace, soprattutto quando l’ambito nel quale agisce è quello degli ultimi, degli emarginati.
Per quanto riguarda il rifiuto delle proposte eminentemente pedagogiche di don Milani formate, si dice, da parolacce, insulti e amenità varie, il tutto comminato da un insegnante-dittatore il quale si sarebbe addirittura servito dei ragazzi come paravento per diffondere scritti suoi e solo suoi, è necessario forse rifletterci un poco. A pagina 5 della “Lettera” si legge: “Dobbiamo ringraziare prima di tutto il nostro Priore che ci ha educati, ci ha insegnato le regole dell’arte e ha diretto i lavori.” Qui non solo la regia milaniana non è negata, è anzi asserita con org ...[continua]
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