Gregory Sumner è professore di Storia all’Università di Detroit Mercy. Ha pubblicato: Dwight MacDonald and the politics circle, Cornell University Press.

"politics”, con la minuscola
Ho scoperto politics per caso. Durante gli studi di dottorato mi ero interessato al movimento della New Left degli anni ‘60 e alle sue origini. Fu durante quegli studi che scoprii quello che per me era l’anello mancante tra la vecchia sinistra marxista degli anni ‘20 e la New Left degli anni ‘50 e ‘60: una rivista pubblicata a New York negli anni ‘40, fondata da Dwight Macdonald che si chiamava politics appunto.
Macdonald mi aveva subito colpito per il suo linguaggio fresco, spontaneo e non ideologico: i suoi testi mi sembravano ancora attuali, così decisi di approfondire questa figura.
Dwight Macdonald era un iconoclasta, un autore unico nel panorama americano, instancabile. Faceva parte a pieno titolo di quel gruppo di intellettuali noti come i "New York intellectuals”, che negli anni ‘30 gravitavano intorno al giro di Partisan Review. Macdonald era stato anche tra i fondatori di quella rivista. Un uomo che non era mai riuscito a rimanere entro confini ideologici, nella sua continua ricerca di un’umanità al di là degli ideali e delle ideologie degli anni ‘30. Non era mai stato nemmeno un buon comunista. Sempre negli anni ‘30 ebbe a che fare con Trotzky, arrivando addirittura a sfidarlo circa la storia delle attività in cui questi era stato implicato durante la rivoluzione. Trotzky ne rimase infastidito, famosa la sua battuta: "Tutti hanno il diritto di essere stupidi, ma il compagno Macdonald abusa di questo privilegio!”.
La prima cosa sua che lessi fu un saggio sulla bomba atomica in cui condannava il lancio della bomba su Hiroshima e Nagasaki. Per lui quell’atto aveva rappresentato la fine del progresso e dell’idea stessa di guerra, dimostrando inconfutabilmente come lo Stato moderno fosse diventato un nemico. Fu quest’analisi ad attirare la mia attenzione. Erano pochi gli americani che osavano adottare posizioni simili nel 1945. Scoprii così che, dopo aver lasciato la Partisan Review, nel 1944, a New York aveva dato vita a un suo proprio giornale, con pochi lettori, ma molto influenti. La rivista si chiamava politics, con l’iniziale minuscola. Macdonald con questa operazione si proponeva di andare oltre il marxismo e l’ideale universalmente accettato di progresso, e di dare spazio alle critiche sulla seconda guerra mondiale e sulle azioni belliche degli alleati, all’insegna di una nuova idea di politica, più umana.
Attorno alla rivista si erano raggruppati molti altri pensatori indipendenti, quei "senzatetto ideologici” che si erano allontanati dal marxismo degli anni ‘30, cercando di formulare una nuova posizione di sinistra indipendente, nel mezzo delle devastazioni della seconda guerra mondiale; persone che arrivavano da tutto il mondo, socialisti, libertari, e che nel periodo intermedio tra la fine della seconda guerra mondiale e i prodromi della guerra fredda, tentarono di delineare una nuova via. Alcuni erano conosciuti, come George Orwell, Hannah Arendt, Albert Camus, Bruno Bettelheim, quasi tutti erano emigrati, esuli dall’Europa; alcuni esponenti della resistenza; altri in asilo politico a New York. Macdonald li reclutò tutti per la sua rivista.

Una coproduzione italo-americana
La cosa che più mi sorprese fu scoprire che dietro l’ispirazione di politics c’era anche un esule italiano, Nicola Chiaromonte, che negli anni 40 era diventato un grande amico di Macdonald. Si può dire che politics fosse il frutto della collaborazione tra quest’infaticabile animatore newyorchese che era Macdonald e l’intellettuale antifascista Chiaromonte.
Macdonald definiva politics "una coproduzione italo-americana”. Fu Chiaromonte a fornire profondità filosofica alla rivista e a reclutare la maggior parte dei collaboratori europei; l’italiano aveva molti legami con il vecchio continente, e per la rivista svolse di fatto il ruolo di talent scout. Fu lui a presentare a Macdonald, Albert Camus, Simone Weil, Andrea Caffi e Niccolò Tucci, un altro italiano che portò in dotazione alla rivista il suo originale senso dell’umorismo, e a farli conoscere al pubblico americano.
Poi c’era Hannah Arendt, introdotta sempre da Nicola Chiaromonte, che non scrisse mai per politics, ma era amica di tutti loro; soprattutto di Mary McCarthy, anche se pare che la prima volta che le due donne si incontrarono non si piacquero.
La McCarthy raccontava: "Quando parlo con Hannah, scopro l’Europa”, e intendeva l’Europa del 1945. Aveva un’esperienza dalla quale gli americani erano schermati, credo che la Arendt fosse una mentore per molti, e la stessa cosa valeva per Chiaromonte. Quando interagivano con Chiaromonte, interagivano con un modo di pensare cui gli americani non accedevano, aveva una profondità di pensiero rara e una grande saggezza. Entrambi raccontavano agli americani della guerra, del fascismo, e delle lezioni che potevano essere apprese da quella drammatica esperienza.
Quando Camus visitò New York per la prima volta, pare fosse rimasto scioccato, diceva che l’America era così grande, naive, grassa, ma soprattutto all’oscuro della guerra.
Nel corso dei miei studi su quegli anni, anch’io sono rimasto colpito dal riscontrare quanto la società statunitense si sentisse lontana, al riparo, dalla guerra. New York all’epoca era luogo di faide e scaramucce tra letterati e intellettuali. Mary McCarthy e Dwight Macdonald erano stanchi delle chiacchiere dei circoli letterari, entrambi ammiravano il modo in cui Nicola e la Arendt fossero seri, mentre parlavano. Mary McCarthy diceva: "Quando Nicola parla di Tolstoj, parla proprio di ciò che dice il romanziere, non come mio marito [Edmund Wilson, poeta e critico letterario, Ndr], che parla dello stile, della dizione...”. Loro avvertivano che dall’altra parte dell’oceano c’era una diversa serietà, che gli europei non avevano tempo per questo tipo di chiacchiere da letterati.
Politics divenne così il collegamento tra gli Stati Uniti e la resistenza antifascista europea, un ponte sull’atlantico, una "rivista transatlantica”, potremmo dire.
La "santa patrona” di politics era Simone Weil, la mistica francese che morì durante la seconda guerra mondiale. Chiaromonte aveva trovato importanti soprattutto le sue riflessioni sull’ideale classico del limite. Possiamo dire che il principio etico di politics era la ricerca di un’etica che rispettasse i limiti dell’uomo, quei limiti che invece erano stati violati con la creazione della bomba atomica e delle ideologie.
Fu Macdonald a pubblicare per la prima volta un articolo di Simone Weil negli Stati Uniti. La sua critica a capitalismo e marxismo era centrata sul loro carattere astratto, sulla fiducia nell’inevitabilità del progresso, su una tecnologia sempre più lontana dall’uomo, se non addirittura contro di lui. Macdonald leggeva Simone Weil all’ombra della bomba atomica, trovandola profetica.
Nel tentativo di costruire una politica più umana, che rispettasse il limite e rifiutasse le accezioni de-umanizzanti del progresso, politics rivolse la sua attenzione ai movimenti di resistenza europea, fondati su piccole comunità fraterne, in contrapposizione alle grandi strutture di partito. Su questi gruppi, più orizzontali e democratici, si erano concentrate molte aspettative e gli uomini e le donne del circolo di politics rimasero molto delusi nello scoprire che l’idealismo, forse romantico, dei movimenti in Italia e Francia non era riuscito a trasformare alla radice la politica nel dopoguerra.
Chiaromonte introdusse Macdonald e i lettori di politics, non solo ai movimenti di resistenza, ma anche a pensatori europei indipendenti; la sua scoperta più importante fu Andrea Caffi, che lungo tutta la sua vita sembrò incarnare un modo di vivere più umano rappresentando il meglio dei valori della resistenza.
Caffi era stato a sua volta ispirato dagli illuministi, dall’idea della libera socievolezza, di individui che interagivano creando comunità che trascendevano le frontiere nazionali. Dunque l’idea di creare una rete internazionale di comunità intime, di libera socialità, viene da Caffi e dalla sua ammirazione per i salotti, per le "enclaves” di comunità indipendenti che a suo vedere si erano sviluppate, durante l’illuminismo, in Francia e altrove.
Caffi ebbe un’influenza assolutamente decisiva prima su Chiaromonte e attraverso di lui su politics. Caffi sentiva che il sogno del socialismo comunitario era stato distrutto nel 1914, e la seconda guerra mondiale era stata solo il proseguimento di quella distruzione. Macdonald, con il suo spirito eclettico, non esitava a raccogliere gli spunti e le idee più diverse, venissero queste dall’illuminismo del diciottesimo secolo o dalle idee classiche del limite; dagli anarchici del diciannovesimo secolo, come Proudhon, o dal movimento europeo di resistenza degli anni 40 e dai movimenti antifascisti, o ancora dagli obiettori di coscienza e dalle comunità pacifiste degli Stati Uniti, dagli attivisti dei diritti umani... L’ambizione di costruire una comunità fatta di relazioni personali profonde, che travalicasse i confini -oggi potremmo parlare del tentativo di costruire una società civile internazionale- aveva tutti questi riferimenti. Da Simone Weil era venuta l’etica del limite, da Andrea Caffi un pensiero libero, fuori dagli schemi della politica, e il modello illuminista della libera socievolezza.
A questi si era aggiunto Albert Camus, che Chiaromonte aveva incontrato in Algeria, in fuga dall’Europa. Anche Camus era anti-ideologico e con Chiaromonte aveva sviluppato una profonda amicizia. Dopo la seconda guerra mondiale, Camus era andato negli Stati Uniti a trovare l’amico, e lì aveva conosciuto anche Macdonald. Assieme avevano discusso di come costruire il futuro. In quell’occasione Camus aveva parlato alla Columbia University dei mali dell’ideologia assoluta e messianica, di quel tipo di pensiero de-umanizzante da lui sperimentato nella Francia occupata, in cui gli esseri umani erano stati trasformati in astrazioni, unità, all’interno di un grande calcolo ideologico.

Packages abroad
Politics era una rivista assolutamente sperimentale. Come dicevo, fu un ponte tra la vecchia sinistra marxista degli anni ‘30 e il pensiero creativo degli anni ‘60, ma anche un ponte sull’oceano che univa le due sponde in un dialogo ideale.
Il dialogo era un valore sentito molto intimamente soprattutto da Camus, che ne aveva patito il venir meno negli anni del fascismo e ne auspicava un ritorno in chiave internazionale. Tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, i collaboratori di politics videro una piccola finestra di opportunità per costruire una comunità transatlantica, anche in termini concreti.
Nacque in quel periodo il progetto di inviare aiuti materiali in Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Germania; si trattò di un progetto di sostegno chiamato packages abroad teso all’invio di medicine, cibo e altri generi di necessità. La rivista faceva da intermediario, segnalando ad ogni numero famiglie e individui, raccontandone la storia. La gente che inviava i beni veniva invitata a scrivere lettere per stabilire delle relazioni con chi riceveva gli aiuti. Vennero mandati migliaia di pacchi.
Il piano Marshall non era ancora stato varato e all’epoca le condizioni materiali, in Europa, erano davvero terribili. Questo tentativo di costruire un programma di aiuto che non si fondasse su un programma di stato di larga scala, ma su rapporti personali, ebbe molto successo.
L’articolo che su politics illustrava il progetto era intitolato: "There’s one thing we can do”, come dire: una cosa la possiamo fare.
Dietro questo progetto c’era Nancy Macdonald, moglie di Dwight, che ho avuto l’onore di incontrare quand’era anziana. Lei era un po’ l’anima umanitaria di politics, da sempre molto attiva nel sociale, aveva coinvolto anche il marito. Aveva seguito la guerra in Spagna, aiutando gli esuli anche sul piano materiale. Era instancabile nel suo impegno accanto alle vittime di guerra, i rifugiati e gli esiliati.
L’iniziativa si fondava anche sull’idea che poteva essere appassionante per un italiano, un francese, un tedesco, entrare in contatto con qualcuno del Kansas, di Detroit, di Indianapolis, o di Movil, Alabama, o ancora di New York; insomma, l’idea che si potesse conoscere qualcuno personalmente anche se viveva dall’altra parte dell’oceano era una bella opportunità.
Chiaromonte, Macdonald e Camus discussero anche di come sviluppare una specie di "anti-partito” politico, in un progetto chiamato Europe-American groups, in cui i "senzatetto ideologici” di sinistra avrebbero potuto riunirsi e provare a costruire un nuovo ordine post-bellico, una sorta di nuova società civile. L’esperimento fallì. C’era qualcosa di ingenuo, naive, molto americano, in quest’iniziativa.
Un mio studente dell’Università di Roma Tre, dove talvolta ho tenuto dei corsi, mi ha detto che essere americano vuol dire cominciare sempre da zero.
Anche Chiaromonte, degli Stati Uniti aveva ammirato l’apertura, l’ingenuità, la generosa ospitalità, era però preoccupato di quello che chiamava il "gigantismo statunitense”. Al pari di Macdonald, pensava ci fosse bisogno di piccoli gruppi, comunità intime, fraterne.
La stessa Mary McCarthy aveva scritto un libro, The Oasis, che aveva come protagonista un esperimento comunitarista. Dobbiamo considerare che negli anni ‘60 molti di questi esperimenti vennero tentati in California e altrove, ma fallirono. Nel circolo di politics si auspicò da più parti questa forma di convivenza ma non provarono mai a metterla in pratica.
Macdonald era il portatore di un ideologismo misto a praticità, che si ritrovava anche nella rivista. Politics uscì per circa cinque anni. La speranza di costruire una sfera democratica, una società civile transatlantica in grado di sfidare il potere dei grandi stati, iniziò a scemare alla fine degli anni ‘40: la guerra fredda cominciava a proiettare un’ombra sull’intero progetto, che alla fine fallì.
Politics chiuse nel 1949, per una serie di motivi: non aveva mai raggiunto la stabilità economica, nel 1947 Chiaromonte era tornato in Italia, l’energia della resistenza si era dissipata... la finestra di opportunità si stava chiudendo.
L’amicizia tra Chiaromonte, Macdonald, e Mary McCarthy, tuttavia, continuò anche dopo la fine di politics. Tutti e tre scrissero contro la guerra fredda, affrontarono la questione nucleare... Anche quando Hannah Arendt, negli anni ‘60, venne attaccata per le sue posizioni sulla connivenza dei capi delle comunità ebraiche, furono loro tre a difenderla sui giornali.
Tutti e tre poi considerarono il Vietnam un disastro per gli Stati Uniti, un esempio di violazione del limite, di Hybris, che portava con sé tutti quei pericoli contro cui avevano messo in guardia. Non erano invece concordi nella valutazione della New Left. Chiaromonte era preoccupato che questo movimento stesse riproducendo alcune dinamiche tipiche del sistema che i giovani volevano cambiare, e poi vedeva con sospetto l’adozione di un linguaggio ideologico astratto.
Macdonald ne era invece entusiasta, aveva anche partecipato agli scioperi studenteschi alla Columbia University. Tant’è che Chiaromonte lo canzonava: "Non è che stai diventando uno Weatherman?” [I Weathermen Underground erano un gruppo di attivisti provenienti dal movimento studentesco che negli anni della contestazione alla guerra in Vietnam decise di colpire i simboli del potere; la formazione prendeva il nome da una canzone di Bob Dylan ("Non hai bisogno di un un uomo delle previsioni per sapere dove soffia il vento”), Ndc].
Si volevano ancora bene, ma decisamente non vedevano allo stesso modo la ribellione giovanile degli anni ‘60. Chiaromonte sicuramente pensava che Macdonald fosse un po’ troppo romantico e ingenuo.
Va anche detto che le critiche di Chiaromonte erano indirizzate più ai movimenti europei che a quelli americani. Fino a che anche il movimento americano non si ideologizzò per la guerra del Vietnam, c’era stata un’apertura di credito positiva nei confronti degli studenti. Diverso il discorso per la forma che il 68 prese soprattutto nell’Europa mediterranea, Italia, Francia, Germania, dove Chiaromonte vide subito il rischio di una replica degli errori dei padri.
Chiaromonte, che morì nel 1972 e quindi non potè vedere l’intera evoluzione del 68, ammirava invece la rivolta studentesca dell’Est Europa, distinguendola nettamente da quelle di Roma e Parigi. Pensava che questi studenti si fossero condannati a una ribellione contro tutto e niente, la cui retorica messianica, assolutista, totalitaria li esponeva a una deriva violenta. Al contrario, gli studenti di Varsavia, in Polonia, avanzavano istanze precise contro un regime oppressivo.
Alla fine si torna sempre all’ideale di limite. Chiaromonte pensava ci si dovesse sempre comportare entro un limite umano, ed era preoccupato dalla retorica adoperata dagli studenti nell’Europa occidentale.

L’anello mancante
Abbiamo detto prima di come si possa considerare politics l’anello mancante tra la vecchia e la nuova sinistra statunitense. Mi è stato chiesto se la nuova sinistra abbia riconosciuto, se non un’affiliazione diretta, almeno questa impronta. Sicuramente ci sono delle continuità di persone. Tra chi scriveva su politics si ritrovano Paul Goodman e altri autori poi divenuti noti. In questo senso c’è stato un riconoscimento di filiazione di fatto da almeno una parte della nuova sinistra americana.
Molti degli americani che leggevano e contribuivano a politics, tra l’altro, erano stati trotzkisti, erano persone che negli anni ‘30 credevano nella classe operaia e nella rivoluzione, ma che avevano visto il fallimento di questi ideali.
Nel corso del ventennio tra il ‘40 e il ‘60, in cui la sinistra sembrò morta negli Stati Uniti, attorno a politics si radunarono un gruppo di persone che guardavano a un nuovo tipo di sinistra, più centrata sui diritti civili, sull’attivismo antinucleare, in rifiuto all’idea dell’inevitabilità del progresso, con l’ambizione di costruire una politica su piccola scala, morale, lontana dalla rivoluzione di classe.
Comunque anche se il debito non è stato riconosciuto, come ho detto, molti autori che divennero influenti negli anni ‘60 avevano scritto per politics, o lo leggevano. Charles Wright Mills e Paul Goodman avevano entrambi scritto su politics, e successivamente avevano diffuso le idee formatesi negli anni ‘40 ai giovani degli anni ‘60...
Va anche detto che la sinistra, negli Stati Uniti, ha una natura più episodica, non è come in Italia o in Europa in cui c’è una lunga tradizione, lì cresce e poi scompare. La leggenda dunque diceva che la sinistra era cresciuta negli anni ‘30, poi era scomparsa negli anni ‘40 e ‘50 per rifiorire negli anni ‘60. Lo scopo del mio libro e delle mie ricerche era di dimostrare che non era così, perché durante quell’interregno sotto la cenere qualcosa covava...
In realtà lo stesso Macdonald fu una figura pubblica negli anni ‘60, scrisse molto sul Vietnam, per Esquire, il New Yorker, eppure molti dei suoi lettori non sapevano di politics, magari sapevano di Partisan Review e del suo lavoro negli anni 60, ma politics era come un capitolo perduto.
Io invece trovai subito questo "incontro transatlantico” di resistenza antifascista, indipendente, di sinistra, tra intellettuali europei e questa nuova generazione composta da Mills, Goodman e altri, un ibrido interessante, e resto dell’idea che anche se non fu mai un esperimento molto conosciuto, la sua influenza fu potente.
Politics era una specie di salotto, e Macdonald ne era l’anfitrione, il maestro di cerimonia; credo che conoscesse praticamente tutti gli intellettuali di New York, e fosse in grado di discutere con tutti loro e tuttavia difficilmente poteva essere rinchiuso in qualche categoria; anche per questo lo trovo molto attuale, molto interessante. Io stesso francamente mi annoiavo molto a leggere le faide comuniste degli anni ‘30 e quando mi sono imbattuto in questa figura fuori degli schemi, ne sono rimasto affascinato. Certo, Macdonald non è il pensatore più profondo che io abbia mai incontrato, ma aveva questa energia instancabile, questa curiosità, questa capacità anche di mettere insieme le persone, riconoscendone i potenziali contributi, come un grande direttore d’orchestra. Forse era questa la sua dote più originale, più che le sue qualità di pensatore filosofico.

Hiroshima e Auschwitz
Macdonald ebbe fin dall’inizio una posizione anti-interventista. La guerra era stata anche all’origine della sua uscita da Partisan Review, i cui collaboratori erano divenuti via via tutti interventisti. Fu per questo che abbandonò PR per fondare un giornale suo, pacifista, anarchico, indipendente. Nel 1944, Macdonald era angosciato dai mezzi con cui veniva condotta la guerra, era disgustato dalla macchina da guerra messa in atto dallo Stato; diceva: ci stiamo riducendo al livello del nemico che combattiamo; flirtava col pacifismo degli anni ‘30, ammirava Gandhi, solo dopo la guerra rivide le proprie posizioni ritenendo di esser stato troppo naive e troppo idealista.
In un primo periodo non si sapeva dei campi di sterminio, per cui per Macdonald la questione era: ma stiamo facendo cose altrettanto mostruose dei nemici? Era uno dei pochi autori americani che dicesse: Hiroshima è altrettanto malvagia, o perlomeno è della stessa categoria dell’universo che ha reso possibile i campi di concentramento.
Anche quando seppe dei campi di sterminio, per lui la questione centrale rimase a lungo il processo di deumanizzazione. Così passava il tempo a criticare gli alleati e il modo in cui gli Usa conducevano la guerra contro i nazisti, l’inutile sterminio dei popoli.
Nell’agosto del 45, quando scoprì della bomba, fece uscire un articolo in cui denunciava come quell’atto moralmente avesse posto gli americani sullo stesso piano del nemico, aggiungendo che occorreva sconfiggere lo Stato moderno prima di esserne fagocitati. Per lui la bomba fu uno shock.
Politics era stato critico anche della retorica impiegata dai generali nella guerra del Pacifico, una guerra considerata razzista, lo si capiva dal linguaggio dei vertici militari: "Ammazzate i giapponesi, sbarazzatevi di quegli insetti”. La questione era, ancora una volta: siamo come loro? Per questo stesso motivo si preoccupava della condizione dei soldati neri, della segregazione, della brutalità, delle molestie.
In The golden age, che essendo un romanzo mescola personaggi inventati a personaggi storici veramente esistiti, Gore Vidal sostiene che gli americani prima della guerra e anche fino a un anno dallo scoppio erano in maggioranza ostili all’intervento.
Fu Roosevelt sostanzialmente a creare l’incidente di Pearl Harbour, dopodiché ovviamente tutti gli americani si sollevarono come un sol uomo pretendendo vendetta; di lì la guerra al Giappone e al suo alleato nazista.
Se questo è vero, e tendo a crederlo, la posizione di Macdonald risulterebbe nient’affatto minoritaria rispetto a una certa sinistra dell’epoca, ma in realtà in sintonia con quello che era il sentire comune del cittadino americano medio.
Dentro politics comunque non erano tutti pacifisti, certo non lo erano Chiaromonte e Orwell, ma non solo loro.
Certo, rimane difficile spiegare la sua posizione. Macdonald non era isolazionista come Charles Lindbergh; credo sia sempre stato internazionalista; la sua opposizione alla guerra dipendeva dall’avvertire la minaccia di una grande macchina statale, di un capitalismo che era divenuto una specie di psicosi. Non vide invece i tratti particolari del nazismo. Diceva solo: "Ecco un'altra guerra”.

Cosa resta
Questo libro è la storia di una rivista durata cinque anni, dal 1944 al 1949. Come storico mi ero avvicinato a questa esperienza mosso anche dalla domanda su quello che definiamo usable past, cioè il passato spendibile, quello che ci può ancora insegnare qualcosa.
Molti dei problemi di cui Macdonald, Chiaromonte e Mary Mccarthy, Hannah Arendt, si occuparono, la questione morale, la burocrazia, la violenza, i pericoli della tecnologia, il senso del limite, le ideologie, il bisogno di comunità, credo restino valide ancora oggi. Col tempo ho scoperto che anche alcuni pensatori divenuti importanti a partire dagli anni 60, come Noam Chomsky, Christopher Lasch e altri, da giovani, negli anni ‘40, erano stati lettori di politics, restando ispirati dalla sua creatività, dal suo umanesimo, e dal suo rifiuto dell’ideologia.
Questo libro è stato scritto negli anni ‘90, mentre finiva la guerra fredda, in un momento di idealismo romantico "americano”: io stesso credevo che nuove opportunità si stessero palesando. Purtroppo queste aspettative sono andate deluse.
Tuttavia di questo circolo di politics continua ad affascinarmi il tentativo di costruire una società cosmopolita internazionale. Un tentativo che forse oggi, nell’era digitale, potrebbe trovare una nuova linfa. In fondo l’invito a costituirsi in comunità e a violare le frontiere, a combattere la deumanizzazione con l’umanità, è una sfida che ancora oggi appassiona molti. Nell’ultimo capitolo del libro ho ripreso una frase di Vaclav Havel: "La prospettiva di un futuro migliore non dipende in fondo da qualcosa come una comunità internazionale di pazzi che a dispetto dei confini degli stati, dei sistemi politici e dei blocchi, fuori dai tradizionali giochi di potere, senza aspirazioni a titoli o altro, cercano di rendere la coscienza umana -quel fenomeno così ridicolizzato dai tecnici del potere- una reale forza politica?”.
Ecco, era questo il sogno di politics.