Gli interventi del Governo, anche quando sono presentati come misure di integrazione, si trasformano nella pratica – perché privi di mezzi, confusi, fuori tempo, affrettati – in ulteriori ostacoli sulla strada di una normale, legale, vita di lavoro.
E’ questo il caso del permesso a punti, le cui prime misure entreranno in vigore a partire dall’11 dicembre.
Le scuole, le associazioni di volontariato, i migranti, le prefetture, le questure, qualche volta in collaborazione, qualche volta in conflitto, si danno da fare -ci diamo da fare, come volontari o insegnanti- per cercare di dare un senso positivo, o almeno di ridurre il danno del nuovo ostacolo, perché di questo si tratta. Non di una ragionevole iniziativa di integrazione sociale, di un insieme coerente ed equilibrato di diritti e doveri, ma di una pratica in più, di un requisito in più, per non essere cacciati dal paese o respinti nella clandestinità, con conseguenze gravi, soprattutto per i minori.
Sulla carta, nei principi invocati per giustificarlo, il permesso a punti dovrebbe essere un insieme di incentivi e punizioni per favorire una buona integrazione: conoscenza dell’italiano, formazione alla cittadinanza, verifica di un comportamento conforme alle leggi. Purtroppo i particolari e la mancanza di tempo e di strumenti non solo creano un ostacolo in più, ma fanno pensare, anche senza essere maligni, vista anche la composizione del governo, che lo scopo reale del provvedimento sia proprio la creazione dell’ostacolo in più; sia l’espulsione, non l’integrazione.
Inoltre la stessa architettura del provvedimento è sbilanciata nel senso dei doveri senza i diritti; nel senso dell’aggiunta di requisiti e controlli in un percorso già difficile e pieno delle rovine di precedenti controlli affondati nella solita mancanza di mezzi, violazione dei tempi, contraddittorietà tra mezzi e fini.
Perché i migranti erano sulla gru? Perché non gli danno il permesso di soggiorno in quanto rei di clandestinità. Ma tutti quelli che avevano fatto domanda erano irregolari, per definizione; altrimenti non avrebbero fatto domanda di regolarizzazione. E allora come si può sostenere che l’essere stati sanzionati, senza conseguenze pratiche, in quanto irregolari impedisce di regolarizzarsi? La partecipazione alla regolarizzazione diventa una autodenuncia.
Ma veniamo al permesso a punti.
Da subito, dall’11 dicembre, chi ha una carta di soggiorno, deve dimostrare di avere la licenza dell’obbligo italiana, o superare un test di lingua di livello A2 europeo. Dal gennaio prossimo a chi ottiene un permesso nuovo vengono attribuiti 16 punti, che può perdere se commette illeciti e può aumentare superando test di lingua o frequentando corsi di educazione alla cittadinanza. Entro i due anni della durata del permesso deve raggiungere 30 punti. Il mezzo più sicuro per raggiungerli resta il superamento del test di lingua.
L’architettura generale è sbilanciata nel senso dei doveri perché si richiedono formazione civica, buona condotta, competenza linguistica – prove di buona integrazione – a persone a cui si concede solo di lavorare, senza nessuna garanzia di stabilità o diritto politico. E’ sensato chiedere la conoscenza della lingua e la formazione civica se si dà il diritto alla cittadinanza o almeno al voto locale, anche se, intanto, bisognerebbe pensare di più alla formazione civica di chi è cittadino italiano per nascita. Ma perché chiedere la conoscenza dell’italiano a un livello superiore alla pura e semplice capacità di comunicare sul proprio luogo di lavoro a chi può essere espulso tra sei mesi per disoccupazione?
Ma le cose peggiori stanno nei particolari.
Aumentare i corsi di insegnamento dell’italiano come seconda lingua sarebbe ottimo; anzi è indispensabile perché i Ctp e le associazioni non riescono a far fronte alla d ...[continua]
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