La mancanza di fiducia nei partiti, l’opposizione ad essi, sembra essere l’unico punto fermo nel quadro caotico delle opinioni politiche italiane. Il modo di essere contro può cambiare però moltissimo; trasformarsi nel suo opposto; diventare una sudditanza totale al proprio non-partito, al proprio movimento, al proprio capo, leader, portavoce, boss. O, al contrario, l’adesione a un partito, nella democrazia dell’alternanza, come si dice, può celare la convinzione che la politica da perseguire sia sempre una sola, determinata dalle forze economiche, dal mercato, espressa da una governance mondiale riconosciuta di fatto da tutti. Tale politica non può essere applicata dallo stesso gruppo, dallo stesso capo, da un partito unico, solo perché la concorrenza è il modo migliore per selezionare un gruppo dirigente, perché gli elettori vogliono il cambiamento. Non perché ci siano davvero più idee politiche, più partiti.
"Per la disperazione degli storici”, come osservava Marc Bloch in Apologia della storia, "gli uomini, qualche volta, si ostinano a cambiare il significato delle parole”. E qualche volta si ostinano a usare parole diverse per indicare la stessa cosa. Da quando le idee si sono separate dalla politica -da una trentina d’anni, diciamo- e i partiti sono stati sostituiti di nuovo dal Fuehrerprinzip, dalla identificazione con un capo, con una cordata, senza riferimento a classi o gruppi sociali, interessi, fini condivisi e dicibili, concezioni dello Stato e della Politica, la confusione regna sovrana sia tra i "rivoluzionari”, magari mitissimi, sia tra i "moderati”, che qualche volta parlano solo urlando, sono i più estremi tra gli estremisti, per non parlare dei "riformisti”, che fino a ieri sarebbero stati definiti "reazionari”.
La riflessione sui partiti, sui loro pregi, difetti e tendenze; su come regolarli, per impedire che diventino fazioni; va avanti da che esiste la democrazia dei moderni. Ha impegnato i massimi autori della storia del pensiero politico. Non penso di aggiungermi a loro. Vorrei solo fare qualche osservazione, qui e ora, da uomo della strada per altri uomini della strada, per aiutare me stesso e quelli come me a uscire dal pantano.

Partito, movimento, popolo
Se si parla di opposizione frontale ai partiti -tutti i partiti- di presunta democrazia diretta, di primato della rete, di pretesa, o programma, di rappresentare tutto il popolo, fino al grottesco (o all’incubo) di Gaia, la mente collettiva realizzata attraverso la rete, si pensa immediatamente al M5s; ai suoi due leader, Grillo e Casaleggio; ai numerosi, e ridottissimi, sondaggi per designare i candidati a tutte le cariche istituzionali, battezzati democrazia diretta. Non voglio tentare una critica delle dichiarazioni e frasi di Grillo -lo ha fatto bene e utilmente Wu Ming- che non sono raccolte in un testo meditato e coerente, e che non credo siano tutte condivise dagli elettori. Più della critica penso sia importante il controllo di realtà, che in questo caso ha funzionato in tempo reale. La sproporzione tra i milioni di elettori e le migliaia, al più le decine di migliaia, di preferenze espresse; la inadeguatezza di alcuni eletti; la loro dipendenza non dal popolo, o dalla rete, ma dai due capi, è risultata evidente a tutti.
Proprio perché trovo condivisibili, al di là del linguaggio in cui sono espresse, molte delle critiche del M5s, vorrei sottolineare la contraddittorietà della concezione della politica su cui si fonda usando non Rousseau e il Contratto sociale, che va oltre i limiti di un breve articolo e delle mie competenze di uomo della strada, ma il Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil, pubblicato postumo nel 1950 nel numero 26 di "La Table Ronde” (reperibile in rete digitando il titolo). Non è una dimostrazione; solo una sollecitazione; un esempio dei risultati cui porta l’applicazione di criteri rigorosi a premesse non molto diverse da quelle di Grillo e concetti tratti da Rousseau.
Scrive la Weil:
"Rousseau partiva da due certezze. Una che la ragione discerne e sceglie la giustizia e l’utilità innocente, e che qualunque crimine ha per movente la passione. L’altra, che la ragione è identica in tutti gli uomini, mentre le passioni, il più delle volte, differiscono. Di conseguenza se, su un problema generale, ognuno riflette in solitudine ed esprime un’opinione, e se in seguito le opinioni sono confrontate tra loro, probabilmente esse coincideranno per ciò che di giusto e ragionevole c’è in ognuna e differiranno per le ingiustizie e gli errori...
La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati efficaci a torto o a ragione. Se la repubblica di Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie più rigorosamente parlamentari e legali, di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli con metodi raffinati fino alla morte, le torture non avrebbero avuto un atomo di legittimità in più di quanto ne abbiano adesso...
Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole, ma che a determinate condizioni il volere del popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia...”.
Ci sono però due condizioni: "La prima è che nel momento in cui il popolo prende coscienza di una delle sue volontà e la esprime non sia presente alcuna specie di passione collettiva... La seconda condizione è che il popolo sia chiamato a esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare una scelta di persone.
Per apprezzare i partiti secondo il criterio della verità, della giustizia, del bene pubblico, conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali. È possibile elencarne tre:
- un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva;
- un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva su ognuno degli esseri umani che ne fanno parte;
- il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico, è la propria crescita, e questo senza alcun limite”.
Credo sia evidente a tutti che il M5s ha tutte le caratteristiche di un partito politico nella definizione usata dalla Weil, ma anche del buon senso, almeno dal momento in cui ha deciso di candidare propri membri alle elezioni in una democrazia rappresentativa, lasciamo stare quanto corrispondente ai propri principi, espressi nella Costituzione. Ed è un partito i cui fini di crescita illimitata, totalitaria, sono dichiarati a ogni piè sospinto, non insinuati da critici malevoli. Il movimento per i beni comuni, che raggiunge i suoi fini attraverso referendum, qualche volta vittoriosi, come quello per l’acqua pubblica, chiama effettivamente i cittadini, uno per uno, a prendere insieme una decisione generale. Lo stesso si può dire di altri movimenti, referendari o no, anche se non si può sostenere che non sollecitino la nascita di passioni collettive. Ma la tendenza del M5s a rappresentare totalitariamente tutto il popolo, a essere tutta la politica è più che evidente. Non riesce a farlo perché ci sono altri, forse peggiori, partiti, e perché la volontà espressa in un momento, in rete o nell’urna, non è la volontà serena, consapevole, costante, di nessuno; né la volontà dell’eletto, anche se vincolata da norme e contratti, esprime quelle dei suoi elettori; né la somma di tutte le volontà espresse -o, peggio, di quelle di tutti gli eletti- può fare le veci della volontà generale. Non si può mimare con le consultazioni, con risposte a quesiti che qualcuno, al centro, prepara, la democrazia diretta. Chi stabilisce le regole, propone i contratti, controlla la rete -nei limiti in cui gli è tecnicamente possibile farlo- controlla i soldi, istruisce e tenta di controllare gli eletti, lui è quello che comanda davvero.
Dovremmo essere attenti al controllo su di noi esercitato da chi controlla la rete: l’uso sulle informazioni che forniamo senza esserne consapevoli; la selezione dei dati che ci arrivano a seconda delle nostre preferenze implicite; il commercio dei dati personali; la possibilità di rendere costoso qualsiasi accesso quando diventa commercialmente possibile e conveniente, per esempio perché si ha il monopolio della scansione dei testi. Figuriamoci affidare a un blog o a un clik le scelte politiche.
Penso che i pericoli maggiori la democrazia, se ancora esiste, li corra per il formarsi di una governance mondiale che in sostanza obbedisce ai ricchi; per l’uso diffuso della forza, anche nel nostro paese, anche a nostra insaputa. Ma il rischio più grande di tutti sta nel dimenticare che la democrazia, rappresentativa o no, richiede formazione, competenza, impegno, a tutti i cittadini. Se contiamo così poco è anche perché abbiamo delegato troppo.