Il problema principale degli italiani è la disoccupazione; l’urgenza maggiore la creazione di posti di lavoro. Ma è difficile che raggiunga il risultato nel modo migliore una auspicabile ripresa pura e semplice dei finanziamenti pubblici, italiani o europei, perché è molto più facile che in passato utilizzare all’estero i finanziamenti ottenuti in Italia; o usarli solo per rendere più solido il proprio bilancio, come hanno fatto le banche; o trasformarli in investimenti finanziari, che non creano lavoro. Altrettanto difficile che ottengano il risultato misure che riguardino l’offerta di lavoro, le condizioni delle assunzioni, come quelle, non solo criticabili, ma inefficaci o dannose, della Legge Fornero. Non è il modo delle assunzioni che è sbagliato; è la domanda di lavoro che non c’è. Perciò non solo le politiche pubbliche non dovrebbero distruggere attività economiche, come avviene se lo Stato, le Regioni, le provincie, i Comuni, non pagano per i beni e i servizi che hanno acquistato o non reintegrano il turnover nella scuola. (In una recente pagina sulle richieste allo Stato delle associazioni imprenditoriali -di Repubblica, credo- Confindustria, Confapi, Confartigianato, ecc..., mettevano al primo posto: pagare i debiti.) Le politiche pubbliche potrebbero e dovrebbero anche creare direttamente domanda di lavoro, come sostiene Luciano Gallino.
Cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, retribuzione del lavoro
I sussidi, chiunque li paghi, sono reddito; come lo sono le pensioni. Chi ha reddito può spendere, vivere, anche se non benissimo, acquistare beni e servizi e perciò far sopravvivere quelli che li producono o li prestano, non trasformare anche loro in disoccupati o cassintegrati bisognosi di sussidi. È una scoperta fondamentale, vecchia come Keynes, che i governanti europei sembrano aver dimenticato. Conviene pagare qualcuno per fare buchi per terra e poi per riempirli -o per non far nulla, a rischio di iniquità nei confronti di chi lavora- piuttosto che lasciarlo a mendicare, perché se lui mendica toglie reddito ad altri e non compra, e perciò rende disoccupati anche altri.
La Cassa integrazione -ordinaria, straordinaria, in deroga, pagata in parte da aziende e lavoratori o totalmente dallo Stato- è la zattera di salvataggio delle regioni più industrializzate italiane perché il sussidio di disoccupazione, che parte solo se il posto di lavoro è proprio perduto, è scarso e breve. I precari che sono fuori dalla Cassa e dai sussidi, sono senza ammortizzatore e sono perciò l’emergenza sociale più grave. Ma la Cassa è un ammortizzatore, che si presume temporaneo. Se diventa eterno è necessario chiedersi se non sia opportuno, o necessario, assistere diversamente i lavoratori colpiti, spendere meglio i soldi.
I casi più clamorosi di Cassa eterna sono alcune grandissime aziende. Si continua a dire che la Fiat -o meglio la Fiat group automobiles, Fga- è la massima azienda manifatturiera italiana perché, sulla carta, ha 80.000 dipendenti, un po’ più di Finmeccanica e di Eni. Ma quanti di quegli 80.000 lavorano? Un quinto? Meno? Anche se si trascurano le interruzioni di qualche settimana, come le due settimane estive per i circa 5.000 dipendenti degli Enti centrali, Mirafiori, Melfi, Pomigliano, Termoli, Powertrain, sono parzialmente in Cassa da ben prima della crisi. Non sono riuscito a trovare i numeri complessivi della Cassa Fga, né in rete né chiedendo a sindacalisti amici. Si trovano però centinaia di articoli che ci ricordano le mancate assunzioni nelle newco, i cambiamenti del tipo di Cassa o delle sue motivazioni, le riprese che si allontanano. Se si aggiunge che i dipendenti Fga sono vecchi, in parte con ridotte capacità lavorative, che le parti più pregiate, come Powertrain, dipendono dalle commesse interne, cioè da altre aziende in Cassa, si è portati a pensare che l’azienda, e i sindacati, semplicemente aspettino, in molti casi, che i lavoratori scadano, che si pensionino, o si ammalino, che vadano a farsi pagare da qualcun altro. Naturalmente penso che i lavoratori delle grandi aziende, che presumevano di avere un lavoro a vita, vadano assistiti con cura particolare, perché è più facile sopravvivere da precari che tornare precari. Se uno ha un mutuo, dei figli, una moglie senza lavoro, semplicemente non può smettere. Ma c’è nella insistenza sulla Cassa anche la incapacità di aprire gli occhi, di capire che quella grande azienda non tornerà mai più come prima, per quanto si peggiorino le condizioni di lavoro; che pagare una maestra di asilo, una assistente anziani, un agricoltore che produca e badi anche la campagna, è almeno due volte più utile che pagare un vecchio operaio, qualche volta in Cassa dai primi anni Ottanta, che avrebbe diritto ad un progetto di lavoro utile vero, nel quartiere in cui vive, magari per badare i bambini quando vanno a scuola o per aiutarsi a vicenda con altri vecchietti.
Organizzare i lavori utili
Il difficile è come organizzarli. La struttura portante del New Deal non fu solo la politica di spesa ma l’organizzazione del lavoro a fini utili: la Tennessee Valley Auctority e il resto. Ma come si fa a realizzare strutture pubbliche efficaci senza troppi costi aggiuntivi? Non sembra che la competenza abbondi nei ministeri, che, anche nei settori fondanti, come l’istruzione, affastellano iniziative che la massa stessa dei disoccupati -o dei precariamente occupati che aspirano al posto fisso- rende grottesche, come l’ultimo concorso, fatto per ringiovanire, che, secondo il "Sole” ha mobilitato centinaia di migliaia di professionisti quarantenni assai lontani dalla scuola. Forse si può partire dal livello minimo, quello dei Comuni e delle associazioni, e dai bisogni elementari: l’assistenza ai bambini e agli anziani, l’istruzione, la prevenzione, la cura dei malati cronici, la manutenzione della montagna. Servizi e protezione civile soprattutto.
Vorrei precisare che, secondo me, non c’è nessun problema tecnico vero, ma piuttosto un importante problema di aspettative; un problema morale, se si vuole. Il motivo principale per cui i cosiddetti lavori socialmente utili furono un disastro è che nessuno si aspettava, neanche a Torino, che servissero a qualcosa. Buchi per terra da scavare e da riempire. Bisognava mettere qualche soldo in tasca, durante la deindustrializzazione, a vecchi immigrati meridionali senza speranza di entrare nel terziario e a nuovi immigrati stranieri percepiti ancora come vu’ cumprà. Perciò qualunque attività fittizia andava bene. Si vedevano i socialmente utili, in strade di collina, fuori dall’abitato, raccogliere foglie che il vento prontamente reintegrava, di cui nessuno si era lamentato prima né si è lamentato dopo, che i contadini in genere bruciano utilmente, forse inquinando. Oppure ci si lamenta ora per il mancato utilizzo di fondi europei, i cui bandi sono spesso inadatti a talune situazioni reali e che potrebbero essere rivisti per il futuro, non perché ci siano bisogni insoddisfatti e capacità di lavoro ed organizzazione inutilizzati, come ci sono, ma perché sono soldi persi -accidenti! Bisogna fare progetti, incassare soldi! Se l’Unione europea facesse bandi per curare le patologie leggere dei grilli, che ai grilli non fanno alcun male, saremmo tutti a studiare i grilli; diventeremmo tutti grilli parlanti, se non lo siamo già. Ci sono i master universitari, senza sbocco e senza senso; e istituti di formazione professionale senza rapporto con il sistema produttivo o con il sistema dell’assistenza e della cura -più altrove che a Torino, in effetti. Li si usa e li si difende per sé stessi. Se noi tutti, disoccupati, precari e potenziali utenti, partissimo dai bisogni locali e dai mezzi locali per soddisfarli; aspettandoci, pretendendo, che li soddisfino, forse potremmo rovesciare la tendenza.
I lavori necessari
Se cerco esempi da citare di lavori necessari ben organizzati, a Torino, finisco su lavori non retribuiti: iniziative di volontariato, cattolico e laico, che sono riuscite a mettere insieme inventiva, dedizione, risposta a bisogni primari. Quando un nucleo efficiente si afferma, spesso per merito di risorse morali, ideali, umane storicamente presenti, come i preti operai o i militanti sindacali di base, e riesce ad appoggiarsi ad una struttura solida, permanente, come una organizzazione caritativa o una camera del lavoro, fa da nucleo a tutti quelli, giovani o pensionati, che hanno un po’ di tempo a disposizione e vogliono essere utili.
È vero che alcune risorse storicamente presenti non si stanno riproducendo, ma di giovani onesti, competenti, motivati, se ne vedono molti. Non è obbligatorio che debbano marcire o esaurirsi nella protesta. La politica è fatta anche di collaborazione con amministrazioni comunali o organizzazioni sindacali. Per scoprire i bisogni non ci vuole il microscopio; bastano attenzione e rigore. Per organizzarsi e trovare i mezzi dovranno rompere la crosta che rende impenetrabili molte istituzioni e passare dalla protesta all’intervento. Non hanno altra scelta. La situazione forse non è disperata; ma è seria.
Una Città n° 201 / 2013 Marzo
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